Un boss di mafia oscurato da lampi di accecante normalità. Potremmo sintetizzare così, parafrasando Ennio Flaiano, il personaggio Matteo Messina Denaro visto da Pietrangelo Buttafuoco, siciliano doc e, come si dice in questi casi, attento osservatore della realtà filtrata dai media. Anzi, secondo lo scrittore e giornalista catanese, in MMD l’essere personaggio sta nel suo non esserlo, nel rivelarsi una persona tutto sommato comune. Perversamente comune, certo, nello sputare sulla memoria di Giovanni Falcone (le “commemorazioni di ‘sta minchia”), ma sfogandosi incolonnato in autostrada. “Non sono un esperto mafiologo, ragiono dal punto di vista spettacolare”, si premura di sottolineare in premessa Buttafuoco. Già presidente del Teatro Stabile di Catania, dal 2015 la firma del Foglio e del Quotidiano del Sud presiede lo Stabile d’Abruzzo. Di attori e commedianti ne sa. E quella dell’ultimo grande capo di mafia, arrestato il 16 gennaio scorso, sembra richiamare la commedia criminosa di un uomo tragicamente normale.
Buttafuoco, dalle conversazioni intercettate uscite in anteprima su MOW si conferma l’immagine di un Matteo Messina Denaro uomo come un impunito che conduceva una vita indisturbata e apparentemente del tutto tranquilla, addirittura amichevole, e che chatta sui social come tutti. È il caso di rivedere i cliché sui mafiosi asceti del crimine?
Quel che è emerso è una sorta di normalità. Anzi, tutta la costruzione che ne è uscita è stata volta a dimostrare l’assoluta normalità di un personaggio pop. Già è significativo, ad esempio, il corto circuito imposto dai quadri trovati in casa e dagli altri elementi di cui è stato fatto un racconto, che hanno totalmente capovolto l’immagine che già con un illustre precedente arresto, quello di Totò Riina, portava due esempi diametralmente opposti: Totò Riina ammanettato sotto il ritratto di Carlo Alberto Chiesa, e qui il famoso selfie di Messina Denaro che ha spopolato sulle piattaforme social. Qui abbiamo un latitante che si nasconde sotto i riflettori, che si immerge nel flusso quotidiano. È esattamente il protagonista di una giornata normale nel compimento dell’epoca digitale.
Questa normalità aiuta a spiegare la facile penetrazione nella “borghesia mafiosa”, come l’ha chiamata il procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia?
No, questo non lo credo per un motivo semplicissimo: contemporaneamente a questi cosiddetti borghesi che dovevano riconoscerlo e individuarlo e denunciarlo, c’erano quelli pagati apposta per fare questo lavoro, cioè riconoscerlo e arrestarlo. Credo invece che le cose siano molto più banali e quindi molto più inaudite di quel che si possa pensare.
Archiviamo dunque la mistica dell’onore e dell’onorata società che avvolge la mafia in un’aura di mistero?
Sì, l’archiviamo perché è stato sempre folclore, enfatizzato come la maionese impazzita in tutta la drammaturgia di questa condanna antropologica. Mi spiego: già la parola “padrino” non è una parola originale del contesto della criminalità organizzata, ma è presa in prestito dalla cinematografia, essendo stata inventata da Mario Puzo, e non c’entra niente. Il fatto stesso che lui per primo si fosse messo in casa il poster di Marlon Brando (nella parte di don Vito Corleone ne “Il padrino – parte I”, ndr) determina proprio il testacoda fra realtà e rappresentazione.
La realtà al di là della rappresentazione qual è?
Penso che tutte queste cose vadano a cadere nel momento in cui sappiamo perfettamente che esiste una sola strada, che è quella dei soldi. Non ha senso, quindi, immaginare che esista tutta una potenza di fuoco, una capacità organizzativa così spietata che poi si risolve nel controllo delle pale eoliche (business sui cui aveva messo le mani MMD, ndr) o di qualche supermercato. È ovvio che i meccanismi più letali e perversi si trovano là dove sono i soldi, tanto è vero che la ‘ndrangheta si appoggia più alla Germania e alla Svizzera di quanto non lo faccia in un qualunque paese dell’Aspromonte.
I soldi, lei dice giustamente. Per fare la bella vita, nel caso di MMD (tumore al colon a parte).
No, in questo caso è potere, che è una cosa completamente diversa. Il potere prescinde dall’apparire. Anzi, molto spesso chi ha il potere non è riconosciuto, sta all’ombra.
Lei mi sta dicendo che andrebbe smitizzato anche come viveur, come figura di elegante “uomo di mondo”?
Queste sono tutte costruzioni che stiamo facendo a posteriori. Guardi, c’è un riferimento ben preciso, su Messina Denaro. Nel 2018 Roberto Andò fece un film sul furto del Caravaggio, dal titolo “Una storia senza nome”. In questo film si ipotizza che lui si sia fatto l’operazione (diventando donna, ndr) e si sia trasferito in Sudamerica diventando una star delle telenovelas. Quindi, eravamo abituati all’idea o che fosse morto o che fosse diventato una star.
Ma Messina Denaro si concedeva con non chalance di dare appuntamenti in ristoranti noti a Palermo.
E questo riguarda ancora una volta la dimensione della normalità dell’epoca del digitale. Chiunque di noi, chiunque, solo con un click viene raccontato, radiografato, controllato, descritto, spezzettato come mai prima nella Storia. Una volta si diceva: datemi la frase di un uomo e con quella troverò dei buoni motivi per farlo impiccare. Per la prima volta la realtà ha preso il sopravvento sulla fantasia. Di solito è il contrario. L’unica verità che mi soddisfaceva era quella del film di Andò.
Secondo lei, da siciliano, cosa pensa il siciliano medio della mafia, oggi?
La Sicilia è diventata sempre di più una periferia residuale, è consequenziale il fatto che vi sia ben poco da lucrare e da succhiare. La criminalità va dove sono i soldi! Non perde tempo in posti che sono ormai diventati un deserto.