"Lasciate l'ego fuori dalla porta". Questa la scritta che campeggiava, in un inequivocabile caps lock, fuori dallo studio si registrazione dove, quella notte del 28 gennaio 1985, sarebbe stata incisa We are the World. Quarantasette cantanti, tutte superstar da Michael Jackson a Tina Turner passando per Bruce Springsteen e Cindy Lauper, sostanzialmente sequestrati in una saletta con temperature tropicali. Una sola notte per scrivere un capolavoro che tutto il mondo avrebbe cantato negli anni a venire (venti milioni di copie vendute), neanche un centesimo per gli artisti coinvolti. Tutto il ricavato sarebbe andato, infatti, in beneficenza all'Africa. Anche se qualcuno, a fine serata, ha comunque tentato di emettere fattura. Tornando a casa con una maglia commemorativa dell'evento. "We are the World - La Notte che ha Cambiato la Storia del Pop" è il docu-film Netflix da guardare come fosse un thriller ad altissima tensione. Perché, nei fatti, lo è. Imperdibile per tantissime ragioni, proviamo a dragarne qui le più sfiziose.
"C'è una frase che non bisogna mai dire: 'Non sono sicuro... Tu cosa ne pensi?'. Se qualcuno l'avesse pronunciata, avremmo avuto 47 versioni diverse di We are the World", dice Lionel Ritchie, sostanzialmente l'uomo che fece l'impresa. A lui il compito, infatti, di coordinare la mandria di famosissimi radunata in quello studio, di scovare eventuali controversie e sedarle prima che esplodessero. Anche autore del testo del brano, insieme a Michael Jackson, già il racconto di come siano state messe in fila le parole della hit è mitologico: Ritchie non era mai stato a casa del King of Pop e quindi non sapeva, tra le altre cose, che fosse una sorta di affollatissimo zoo. Mentre i due si ritrovano nella stessa stanza per provare a immaginare il ritmo del pezzo ("Michael non suonava, continuava a bofonchiare motivetti"), "sento un rumore strano, cadono dei dischi. Mi volto e vedo questo serpente enorme. Urlo. Jackson, invece, è tranquillissimo: 'Uh, avevo dimenticato di avergli lasciata aperta la teca, deve essersi incuriosito sentendoci canticchiare. Gli sei simpatico, vuole farti un saluto, Lionel', mi dice. Io volevo solo scappare via". Però Ritchie non poteva andarsene. Il produttore Quincy Jones, l'ideatore dell'intera iniziativa, li aveva appena chiamati per avvertirli di un fattarello: di lì a 10 giorni la canzone, che ancora non esisteva, sarebbe stata registrata da altri 45 artisti, tra cui Bob Dylan, Bruce Springsteen, Ray Charles, Diana Ross, insomma da tutte le superstar della musica mondiale. "Dovrà essere un capolavoro - precisa - A che punto siete?".
Contemporaneamente, incredibile anche il lavoro dello staff che ha incrociato i calendari degli artisti coinvolti con grande scaltrezza. La sera del 28 gennaio, infatti, si sarebbero tenuti gli American Music Awards e più o meno ogni star desiderata per il progetto sarebbe stata presente. Con Lionel Ritchie sul palco a presentare, vincere qualcosa come sei premi e precipitarsi nel backstage a ogni pausa per verificare che i cantanti non avessero tagliato la corda, ripensandoci. O che non fossero troppo sbronzi. A metà serata, per esempio, Cindy Lauper se ne voleva andare perché il fidanzato le aveva detto che il brano non fosse poi questo granché. Anche Stevie Wonder non era particolarmente compiaciuto.
Stevie Wonder non era compiaciuto perché il brano avrebbe dovuto essere anche a sua firma ma, alla fine, lo hanno scritto solo gli altri due (Jackson e Ritchie) per ragioni di tempistiche stringenti e di calendari che non riuscivano a incrociarsi. L'artista sembrava aver preso bene la cosa, fino a che, durante la registrazione, se ne esce con un'idea: "Inseriamo parti del testo in swahili per omaggiare l'Africa!". Nessuno, chiaramente, poteva dire di no a Stevie Wonder. Ma, mentre quasi tutti gli altri già provano a cantare la nuova - tremenda - modifica e uno tentava la fuga inorridito, interviene il deus ex machina Quincy Jones: "Bellissimo, ma non tutta l'Africa parla lo swahili. In particolare, questo brano lo facciamo per l'Etiopia dove quella lingua proprio non esiste". Wonder si cheta, problema risolto. I lavori possono procedere.
I lavori possono procedere ma non senza complessità aggiuntive: tra le principali, non tutti arrivano alle note che prende Michael Jackson. C'è un meraviglioso passaggio di repertorio in cui un fonico chiede al King of Pop di accennare la canzone, giusto per una prova microfono. Lui, senza manco impegnarsi, la canticchia tanto per e gli fuoriesce una versione comunque celestiale. Di cui, in ogni caso, si scusa subito per aver sbagliato una parola. Ha detto "brighter day" invece di "better day". E così rimarrà nell'incisione ufficiale. In tutto questo, Bob Dylan versa in grande difficoltà. La sua voce non ci arriva. Non è l'unico ad avere questo problema. Ma è quello che si fa sgamare più di tutti. Quincy Jones avverte: "Non vi preoccupate se non riuscite a salire così in alto, se non ce la fate, non cantate. Siete così tanti che non se ne accorgerà nessuno. Quindi, stonate in silenzio". Dylan fa esattamente così. Purtroppo, però, non è un drago del playback e si vede benissimo che muove la bocca a caso fingendo di intonare le parole del testo mentre tutti gli altri cantano (?) precisi.
"We are the World - La Notte che ha cambiato il Pop" è una delizia. Perfetta, tra l'altro, da gustare alle porte di Sanremo immaginando tutto ciò che non vedremo dietro le quinte della kermesse. Il sogno è Geolier che scalpita per cantare in swahili.