«“Ricordate” usava dire il professor Fumagalli al termine delle lezioni “se ne sappiamo di più sulla vita delle formiche, ne sappiamo di più sulla nostra”. Il professor Fumagalli insegnava Storia e Filosofia». Questa prosa di Giampiero Neri, contenuta entro la raccolta “Piano d’erba” (e qua riferita a una delle sue tante figure, il professor Fumagalli), sembra essere l’epitome, cioè il riassunto quanto più azzeccato della vicenda politica e personale di Aldo Braibanti, recentemente trasposta su pellicola da Gianni Amelio in “Il signore delle formiche”, presentato in concorso al festival di Cannes. Aldo Braibanti era uno scrittore, sceneggiatore, filosofo, ma anche un mirmecologo, che ricercava la bellezza nella natura e le sue forme, nei formicai artificiali riposti nelle teche, di cui studiava atti e comportamenti. Un etologo, prima di tutto, che ravvede nella formica le sembianze di una norma a cui dovrebbe aspirare anche l’uomo: non un semplice parallelo, ma un paradigma riposto nelle leggi naturali, tutte basse e microscopiche, della comunità formicaia. E per questo allestisce a Castell’Arquato e a Roma un laboratorio artistico, in cui letture, romanzi, poesia, danza s’intrecciano sotto il nome comune di arte, che aristotelicamente è imitazione della natura nel suo stesso modo di operare.
Le formiche, difatti, non hanno distinzioni tra privato e pubblico, hanno uno “stomaco sociale”, il cui bene collettivo è anteposto a qualsivoglia interesse individuale: in altre parole, “hanno bisogno di stare vicino”. Un laboratorio, perciò, che funge da esperimento sociale, che trascende l’illegalità del rapporto morboso tra il “plagiatore” Braibanti e la materia informe dei suoi allievi, che ripensa in termini totalizzanti lo scambio culturale. Tutti gli allievi cadono vittime dell’amore per Braibanti, tutti pendono dalle sue labbra, ne ricercano approvazione e beneplacito, anche coloro che il maestro si fila poco o con cui si scontra. L’amore corporeo (ed omosessuale) con gli alunni (e che è ciò per cui venne processato) è solo l’ultimo ed estremo corollario di un rapporto che ha sospeso ogni limite per far posto ad una condivisione senza uscite, che trova nella “messa in crisi” la necessità del suo stesso sviluppo.
Giustamente, di questo film è stato messa in luce la mentalità volgare di un’epoca in cui l’omosessualità era considerata una stortura della natura umana, da invertire e riportare alla “norma”. Un vezzo non direttamente riconducibile (e qui va un grande merito ad Amelio) all’una o all’altra delle visioni politiche, sebbene sia evidente la matrice profondamente cattolica del processo a cui lo scrittore va incontro. D’altro canto per Serena Nannelli (dalle pagine de “Il Giornale”, https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/signore-delle-formiche-gianni-amelio-film-pi-testa-che-cuore-2064456.html) la pellicola calca eccessivamente sulla fascinazione intellettuale tra Braibanti e il suo allievo Ettore, mettendo da parte e svalorizzando il momento più propriamente erotico del loro rapporto. È necessario, tuttavia comprendere la grande capacità di Braibanti di entrare nella mente dei suoi allievi, di comprenderne disagi e potenzialità, ma soprattutto di lasciarsi lui stesso affascinare: vi è una scelta continua da entrambe le parti di incontrarsi su un terreno che rompe qualsivoglia rapporto a senso unico sul modello “allievo-maestro”, e che muove nella comune direzione della curiosità per il mondo, tutta immanente e simbiotica. Un rapporto che in sé poteva legarsi in passato al reato di plagio, nella vicenda di Braibanti strumentalizzato come copertura per condannarne l’omosessualità. Ma che oggi, ancorché legale, rimane inconcepibile, vista la netta distinzione tra spazio privato e personale e vita pubblica e lavorativa che ormai presiede la conduzione delle nostre vite. Riusciremmo, anche solo a concepire, senza ghigni o sospetti di sorta, un Braibanti ed un Ettore dell’oggi? Un maestro ed un ragazzo che viaggiano assieme, condividono una camera e vanno assieme ad una festa? È possibile oggi, rompere la soluzione di continuità tra vita privata e “rapporto lavorativo” al fine di una più ampia condivisione ed esperienza culturale?