Non ho mai capito la fascinazione che subisce Walter Veltroni dalla dimensione dell’infanzia, esattamente come non ho mai compreso - del tutto - l’ossessione di Mengele coi gemelli. È stato tutto bello, docu-fiction di Veltroni su quella figura elegante che fu il grande calciatore Paolo Rossi, è un pareggio col cinema e con la vita di quest’uomo.
Iniziamo dalla ricreazione dell’infanzia, tramite fiction, di uno degli eroi del Mondiale ’82, con un bianco e nero a metà strada tra Pather Panchali, i 400 colpi e l’app Vsco, inserendo a caso, nel mezzo, una citazione, degna di Telecity ed evitabilissima, allo scandalo del Totonero che costò al calciatore due anni dolorosi di squalifica.
Paolo Rossi non è un Pelè che si dipingeva le scarpe o un Maradona che, poverissimo anche lui, veniva sfamato coi grandi sacrifici di donna Tota (sua madre); Paolo Rossi viene da una “povertà” dignitosa, raccolta, o come disse suo fratello: “La nostra vita era all’interno della casa. Non all’esterno. Eppure, i nostri genitori non ci hanno mai fatto mancare nulla”. Potrebbe sembrare difficile raccontare di un uomo tanto gentile – à la Gaetano Scirea – senza colpi di testa, senza scandali (escluso quello sopracitato), senza traumi o un ambiente disfunzionale attorno, ma la magia di Rossi, al di là della sua velocità sia di pensiero che di gambe, sta proprio nel raccontarsi da solo.
Così appena È stato tutto bello si smarca dalla fiction e da soluzioni narrative stucchevoli, emerge vivida la vita del calciatore, tra ricordi di amici, allenatori ed ex compagni di squadra, con una sequenza di immagini e video inediti. Inizia il racconto della storia di Rossi nel calcio lasciando, volutamente, sullo sfondo la Storia cruenta come quella di un Argentina soffocata dalla dittatura dei Mondiali del ’78, e un Europa che usciva dagli Anni di piombo col Mondiale del 1982.
Tra i guizzi del film, in cui indugia giustamente È stato tutto bello, c’è la lunga scena con un Sandro Pertini tifoso, quello che dalla vittoria sul campo di Madrid fino al ritorno a casa e il pranzo a Roma,
si lascia andare e festeggia col “dream team” che ha fatto sognare l’Italia intera prima delle notti magiche.
I gol sono un lavoro fatto in comunione, non sono azioni del singolo, secondo Pertini la squadra messa insieme faticosamente, e difesa strenuamente dalla stampa da Enzo Bearzot, commissario della nazionale, erano un esempio di unione dopo anni, dolorosi e di sangue per le strade, di separazione tra i giovani, anni di governo che gli avevano fatto mangiare il fegato.
L’Italia, lo sappiamo, fatica per tradizione a decollare nei Campionati mondiali (ricordate il 2006?) e questo emerge nei ricordi degli ex compagni di squadra raccontando il clima di tensione, “usando” Bearzot come trincea in cui nascondersi dall’enorme dito dell’opinione pubblica: “Voi pensate a giocare”, dirà il tecnico ai suoi ragazzi e loro lo ascolteranno fin troppo bene. Zoff che alza la coppa è pura emozione, il giocatore più âgée a farlo, così come l’Italia che dopo 44 anni si riprende il titolo nell’incredulità collettiva. Questo film arriva al momento giusto, a 40 anni e due mesi circa da quella vittoria e, ahinoi, a due anni dalla morte di Paolo Rossi.
Perché sì, la vita di Paolo Rossi non sarà stata tormentata come quelli di altri grandi, ma il mondo dello sport, e dell’arte nella dimensione sportiva, ha bisogno anche di uomini così, talenti che tirano i remi in barca e si godono la famiglia nel pieno della gloria. Forse l’ex centroavanti juventino, dal carattere mite ma sempre sorridente, aveva capito che nella vita fuori dal campo il tempo ha dei modi diversi e più crudeli di scorrere: molto più velocemente, senza recupero e con l’angoscia all’idea di sentire quel fischio finale. Paolo Rossi muore serenamente sulla spalla della moglie a 64 anni per un tumore ai polmoni.
L’ultima azione, quella più vera, grandiosa e terribilmente dolorosa è quella mostrata alle due figlie (avute dalla seconda moglie): “Qualsiasi cosa succeda andate sempre avanti”.
Così È stato tutto bello finisce come inizia, con un Paolo Rossi bambino che guarda in camera e mette via la maglia: è tempo per altri campi, ormai.
Paolo Rossi aveva talento, intuito, ma è la volontà e quel tendere in avanti che hanno reso il suo gioco immortale, e quell’Italia del 1982 con lui. L’istantanea dell’infinito.