Le forme di narrazione più sublimi ed efficaci uniscono la grande Storia, quella che contribuisce a formare la memoria collettiva di tutti, alle piccole storie quotidiane che ciascuno di noi vira a proprio piacere, mettendoci del suo, ripensando a dove si fosse trovato in quel determinato momento, proprio quando stavano passando le onde del destino.
Sono passati quarant’anni dal luglio 1982 e la vittoria degli azzurri ai Mondiali di Spagna viene celebrata come l’impresa calcistica più importante di sempre per le ragioni che tutti sappiamo: la testardaggine e la solitudine di Enzo Bearzot, il riscatto di Paolo Rossi dato per finito e contestato fin dalla convocazione, il silenzio stampa, il climax ascendente che si libera di Argentina e Brasile, il resto è quasi una formalità. Quel Mundial ebbe una potenza iconica devastante, non esistevano i social e infatti le immagini erano uguali per tutti, quelle diffuse dalla tv e dalla carta stampata. Ci sono un solo urlo di Tardelli, un solo abbraccio a Pablito, una sola parata di Dino Zoff che tiene il pallone sulla linea, un solo presidente Pertini che si alza in piedi al Bernabeu, oltre ogni protocollo.
Solo allora i Mondiali erano diventati uno spettacolo televisivo, migliorando il servizio dopo quello del 1978 in cui fummo belli, sfortunati e forse un pochino presuntuosi. Rispetto a Berlino 2006 o l’Europeo di Londra 2021 (un trionfo già archiviato a causa della seconda eliminazione consecutiva dai Mondiali), Madrid 1982 ebbe un significato unico entrato a far parte della storia, ecco perché loro sono i campioni più amati di sempre e perché quello (prendo in prestito il titolo del libro di Emilio Targia) fu il Mundial più bello di sempre. Nel quadriennio che separa il deludente - in quanto a esito finale, non per il gioco espresso - quarto posto in Argentina dalla notte di Madrid, l’Italia è un Paese profondamente cambiato e anche le tragedie più cupe e drammatiche - il caso Moro, la strage alla Stazione di Bologna, il treno Italicus, Ustica, il terremoto in Irpinia - lasciarono il posto a una nuova consapevolezza che, infatti, corrisponde all’ingresso nell’era contemporanea. Che, a differenza di ciò che sostengono in molti, non è da collocarsi nel Sessantotto ma negli anni ’80, quando il Made in Italy piace, l’economia tira, la politica si laicizza (il presidente del Consiglio durante il Mundial è Giovanni Spadolini, repubblicano, primo non democristiano della storia) e il terrorismo sembra finalmente sconfitto.
Dopo la pessima pagina del calcio scommesse - l’Italia ospitò gli Europei del 1980, prova generale dei Mondiali ’90, con una Nazionale mutilata dalle squalifiche - in Italia tornano a giocare gli stranieri e nel giro di un biennio arrivano i campioni più forti, tanto che il nostro fu definito il più bel campionato del mondo. Ma con attenzione e giudizio, uno per squadra (due dopo i Mondiali) e quasi sempre decisivo, non come ora che ne hai 20 in rosa e più della metà brocchi.
Il ritorno degli stranieri dopo oltre un decennio di embargo coincide, non casualmente, con un altro ritorno, quello delle rockstar angloamericane. La musica dal vivo negli anni ’70 fu penalizzata dall’instabilità politica e dai concreti rischi di disordini, ecco perché la mia generazione ha rischiato di crescere male a pane, cantautori e Inti Illimani. Per chi come me non crede alle coincidenze e pensa che le date non siano mai casuali, l’11 luglio 1982 (insieme ad altre 70 mila persone almeno) segna un appuntamento molto preciso: il concerto dei Rolling Stones allo Stadio Comunale di Torino, anzi il primo dei due perché avrebbero poi replicato la sera dopo. E io ho i biglietti per entrambi gli spettacoli. Non è questione di pessimismo o di non credere nelle possibilità di successo degli azzurri, come fece il professore di Storia del Cinema che mise l’appello il 5 luglio pomeriggio, giorno di Brasile – Italia, ciao esame sarà per la prossima volta, ma Jagger e Richards non hanno molte date libere quindi è proprio l’11 luglio, con una Torino stracolma di ragazzi da ogni parte d’Italia e non solo, si suona il pomeriggio alle 16, fa un gran caldo, perché la partita non si può saltare.
Ecco, quel giorno anche io ero lì e ho fatto la stessa cosa di quei fortunati 70 mila che decisero di andare a Torino. Eravamo solo in due, il mio amico Diego Amodio e io, concerto, panino al volo, col tram a casa sua e partita in religioso silenzio insieme a suo padre. Dopo quasi tre ore di musica e casino, la città era avvolta in una coltre ovattata come neppure in novembre con la nebbia che allora c’era. Poi la festa in piazza fino a tarda notte.
Avevo vent’anni e giorni così non credo di averne passati molti. A vent’anni è più facile essere felici, la musica, l’amicizia, il calcio, la vittoria, non c’è molto di meglio in giro per la vita.