Dino Zoff è un distico di Stefano Benni: «Bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti». Dino Zoff, che è arrivato a quota 80 anni, probabilmente non ha nemmeno bisogno della seconda frase, perché la corrispondenza tra uomo, pensiero e parola nel suo caso è univoca. Benni pubblicò Baol nel 1990, Dino Zoff è nato il 28 febbraio 1942 e allora, quando il libro uscì, era appena stato cacciato dalla panchina della Juventus neomontezemoliana dopo aver portato una delle squadre meno dotate dell’intera storia bianconera a vincere una Coppa Uefa e una Coppa Italia nell’arco di una manciata di giorni: lo sapevano tutti che lui, il vecchio, sarebbe stato sostituito da Maifredi, il nuovo che avanzava (e infatti è poi avanzato), glielo dovette dire di persona l’avvocato Agnelli, imbarazzato perché quella scelta rappresentava la fine di un’era. Ecco: quello stesso Zoff amato da tutti, il capitano e il nume tutelare del Mondiale di Spagna ‘82, colui che da alcune settimane viene intervistato da tutti - è la ridicola corsa del giornalismo attuale, quello senza idee per il quale compleanni e anniversari vanno anticipati, hai visto mai che ne scriva prima qualcun altro - e a tutti dispensa saggezza, umanità e stile, nel corso di una carriera encomiabile è in realtà stato trattato a pesci in faccia in più di un’occasione.
Titolare nella finale dell’Europeo del 1968, perse il posto in favore del più glamour e comunque fortissimo Albertosi per colpa di un’amichevole in Spagna e delle successive critiche. Non che avesse tutte queste colpe, ma non polemizzò, non si autoassolse. Ha sempre parlato il giusto. Al Mundial spagnolo, divenne il portavoce azzurro nei giorni del silenzio stampa: in un’intervista ad Aldo Cazzullo nel 2016 ricordò che «all’inizio, quando prendevo il microfono, i giornalisti si alzavano e se ne andavano». Bravi, eh. Nel 1983, nella finale di Coppa dei Campioni ad Atene contro l’Amburgo, la sua Juventus perse per un gol da fuori di Magath e scrissero di fioretto che non era più quello di un tempo, che era un gol da non prendere, che era finito.
Dopo i giornalisti, toccò ai politici. 7 dicembre 1993, prima pagina del Corriere dello Sport, intervista a Francesco Rutelli, neoeletto sindaco di Roma. Il titolo? «Dopo Fini boccio Zoff». Svolgimento: «Ritengo che il ciclo di Zoff alla Lazio sia finito, mi sembra che il tecnico non sia riuscito a dare alla squadra una personalità sul piano dell’organizzazione e dell’amministrazione della gara», disse, forte della sua eccelsa esperienza in merito. Incredibile dictu, Zoff per una volta rispose: si definì colpito dalla «arroganza fresca del potere, di quel potere che è sempre lo stesso. «Può darsi che il mio ciclo sia finito, ma non è incoraggiante che stia per iniziare il suo». Sdeng. Oggi la chiamerebbero blastata, allora era semplicemente una risposta rilasciata a Repubblica. Per par condicio - vuoi mai che uno perda l’occasione per tacere - nel 2000 fu Berlusconi a umiliarlo: gli diede dell’indegno dopo la sconfitta della sua Italia nella finale dell’Europeo contro la Francia migliore di sempre. Testuale: «Nella finale di ieri è stato indegno, si è comportato come l’ultimo dei dilettanti». Rileggiamo: Berlusconi che dà dell’indegno a Dino Zoff. Berlusconi, al massimo sedicente allenatore dell’Edilnord, che dà del dilettante a Zoff, ct della Nazionale. E Zoff fece immediatamente un atto rivoluzionario: si dimise.
Da rivoluzionari del resto è anche evitare di ribattere a ogni sciocchezza, non perdersi in agoni senza senso. Ce ne sarebbero altre di situazioni da ricordare, ma può essere sufficiente così: di quelli come Dino Zoff non ne nascono più o, se nascono, sono fuori dal tempo, un hombre vertical in un mondo che adora battezzare in quel modo personaggi tutt’altro che integerrimi. Il suo è un modo di vivere straordinario perché inattuale: basso profilo, autocritica persino feroce (leggere per credere Dura solo un attimo la gloria, la sua autobiografia pubblicata nel 2014 da Mondadori), dignità, valori di un’Italia del Dopoguerra che già negli anni Ottanta avevano lasciato spazio ad un’assiologia completamente diversa. Zoff è un dipinto di rughe e saggezza, lo è a ottant’anni ma lo era a trenta, a quaranta, a cinquanta, a sessanta. Quando lo criticavano, lo consideravano bollito da giocatore, gli davano del vecchio da allenatore, del dilettante e dell’indegno. A lui, l’ultimo dei rivoluzionari.