Giulio Perrone ha raccontato in Tante parole, poi l’amore (Sem, 2024) le storie che abbiamo imparato nel tempo a perdere di vista. Le storie dei nostri vicini, della coppia dall’altra parte della strada, di una famiglia in una clinica riabilitativa. Di tutto ciò che si muove, cambia, frana, finisce nell’arco di pochissime ore, mentre a pochi metri qualcos’altro nasce o continua nell’indifferenza dei due partner (e davvero possiamo chiamarlo amore?). Ma Perrone è anche un editore e abbiamo scelto di intervistarlo anche per capire qualcosa di più dell’attuale mercato editoriale, dei premi e chiedendogli perché in Italia si legga così poco rispetto al resto dell’Europa.
Tante parole, poi l’amore. Truffaut diceva: “Ho allungato i momenti che negli altri film mi sono sembrati troppo brevi, i momenti in cui le persone si incontrano”. Quanto sono importanti le parole prima dell’amore?
Molto. In questo libro, più che di amore, si parla di desiderio, confronto nelle relazioni. Da un certo punto di vista in questo libro è importante sia quello che viene detto, perché c'è molto dialogo tra i vari protagonisti, sia quello che viene tenuto nascosto, i segreti. Quindi le parole sono importanti sia per quello che viene raccontato, ma anche per quello che viene taciuto.
Ha raccontato rapporti che non funzionano, come quello di Fabio e Valentina, che sono quasi due maschere, due personaggi tipici: lei perfetta, altezzosa, quasi scollata dalla realtà. Lui riflessivo ma un uomo semplice, diretto e sentimentale. Parli di un equilibrio difficile ma possibile. Crede che in rapporti del genere si possa provare a essere realmente felici?
Quei due personaggi costruiscono la base essenziale del loro rapporto su un principio che non è sentimentale ma fondamentalmente di interesse, di legame che ha a che fare con, da un lato, il voler tenere vicino qualcuno da controllare, come fa Valentina, da modellare a proprio piacimento, mentre Fabio vuole tentare una scalata sociale. Quindi sicuramente è un rapporto che non può essere basato su un vero e proprio equilibrio e quindi di conseguenza si può raggiungere uno stato di serenità al limite apparente
Lei ha detto che questo è un libro che più che di amore tratta quasi di desiderio. Qual è la differenza tra amore e desiderio?
L’amore è relazione che si basa su un'unione, su un equilibrio e sul fatto che questo sentimento in qualche maniera viene arricchito dalla persona che abbiamo accanto. Se invece il rapporto è basato su uno squilibrio e quindi su una situazione di potere, che viene subita o esercitata da qualcuno, allora a quel punto non è non è un sentimento di amore come lo vorremmo intendere. Il desiderio ha a che fare con qualcosa che proviamo solo noi che non necessariamente è connessa a quello che sente l'altro.
In un altro dei suoi racconti, Clinica Riabilitativa, finisce parlando del padre che rinnova la sua speranza verso il futuro della figlia, e questa speranza la definisce una dolcissima illusione. Quanto l'illusione gioca un ruolo nei rapporti di oggi?
Sicuramente c'è l'illusione, c'è anche il voler vedere le cose in un certo modo come le intendiamo noi e poi andare a trovare negli altri o nel mondo quello che noi cerchiamo e questo genera spesso un dolore.
Le storie che racconta sono tante, apparentemente diverse, che corrono parallele lungo l’arco di un’unica giornata. Crede che abbiamo un po’ perso quell’attenzione che invece lei da scrittore ha riscoperto, nel notare ciò che ci succede intorno?
Sicuramente siamo molto concentrati su noi stessi e quindi tendiamo a non notare soprattutto i dettagli di quello che ci accade intorno. Spesso rimaniamo sorpresi quando succede qualcosa perché l’agire degli altri ci coglie sempre un po’ di sorpresa, non avevamo colto i segnali che riguardavano un problema, una difficoltà, una distanza, un rapporto che si incrina. Quello che mi interessava molto in questo libro era proprio andare a vedere le fratture, quello che succede quando i rapporti cominciano a creparsi, a mostrare delle difficoltà, dei momenti di lontananza, di allontanamento, tutto ciò ci cui ci rendiamo conto sempre quando è troppo tardi.
In Italia è più difficile essere editore o scrittore?
Dal punto di vista però del lavoro in sé, sicuramente il lavoro dell'editore è molto più impegnativo. Il lavoro della scrittura è un lavoro molto bello, anche faticoso, anche doloroso, ma per quanto mi riguarda è proprio una vacanza da tutto ciò che è il lavoro quotidiano. Il lavoro dell'editore è invece un’occupazione costante che richiede dedizione. È un lavoro di raccordo tra editori, librai, tipografici e così via. Ma il lavoro dell'editore è anche quello che amo di più.
L’Italia è al terzultimo posto tra i Paesi europei con più lettori. Di chi è colpa?
Credo che sia colpa delle politiche culturali che mancano. Negli ultimi vent’anni, almeno da quando io faccio l’editore, non ho mai visto delle politiche pensate per cercare di intervenire sul tasso culturale del Paese, sul tasso di consapevolezza delle persone, perché poi avere una frequentazione avere una maggiore consapevolezza di se stessi significa avere un paese con una coscienza civile migliore e quindi secondo me evitare di lavorare su questi aspetti porta tutta una serie di vantaggi ai governi, non a caso i tassi di lettura più alti li troviamo in quei paesi del nord Europa dove anche il livello di democrazia, di confronto, di attenzione, di forza, di welfare, di attenzione al sociale e al civile sono molto forti e da noi no. Quindi c'è una correlazione.
C’è differenza tra Felicia Kingsley e Antonio Scurati?
Direi di sì, però credo che esistano vari ambiti in cui si può fare editoria. Fare editoria non significa, questo bisogna ricordarlo sempre, fare critica letteraria o fare necessariamente letteratura. C0è tanta editoria che viene fatta per l’intrattenimento di buon livello e che è assolutamente più che lecita, più che giusta. Poi se si ha l’ambizione di provare a fare una proposta anche culturale, significativa, quello è molto interessante e credo che sia un ambito in cui gli editori indipendenti hanno detto e continuano a dire tanto. Però dove c’è un lavoro serio e una proposta seria anche l’editoria di intrattenimento ha assolutamente una sua logica, c'è sempre stata e quindi è giusto che ci sia, non è detto che tutti i lettori del mondo debbano leggere solo La metamorfosi di Kafka
I premi letterari come lo Strega aiutano gli editori indipendenti?
Sono sicuramente premi importanti per valorizzare gli scrittori, per farli conoscere anche al grande pubblico, e sicuramente hanno un effetto positivo nel momento in cui in qualche modo coinvolgono anche gli editori indipendenti. Ma quando ho modo di parlare con chi organizza e gestisce questi eventi chiedo di avere un’attenzione in più verso l’editoria indipendente, perché credo che tanta anche dell'innovazione letteraria che viene fatta in Italia arrivi da questo mondo qui, in cui gli editori indipendenti hanno una marcia in più. Quindi cercare di dedicare uno spazio, che non sia una riserva indiana, verso quello che viene proposto dagli editori indipendenti credo sia auspicabile.