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In morte di Steve Albini: ora siamo noi ad andarcene affan*ulo

  • di Michele Monina Michele Monina

8 maggio 2024

In morte di Steve Albini: ora siamo noi ad andarcene affan*ulo
All’età di 61 anni, a pochi giorni dal ritorno sulle scene come frontman degli Shellac e di un nuovo album, un infarto ce lo ha portato via all’improvviso, lasciando sgomenta la scena internazionale. Ma che ne sa la Gen Z dell’ingegnere del suono che ha modellato il sound di artisti come Nirvana, PJ Harvey, i due Led Zeppelin Robert Plant e Jimmy Page, i Pixies e tanti altri?

di Michele Monina Michele Monina

È morto Steve Albini, letteralmente uno dei massimi fautori del suono del rock alternativo degli anni 90. All’età di 61 anni, e a pochi giorni dal ritorno sulle scene come artista, nei panni di frontman degli Shellac, previsto il nuovo album, primo da dieci anni a questa parte, il 17 maggio, To All Trains il titolo, e prevista la band sul palco del Primavera Sound, a cavallo tra maggio e giugno, un infarto ce lo ha portato via all’improvviso, lasciando sgomenta la scena internazionale, spaesati chi, come me, con quel suono ci è cresciuto e ancora ci si perde. Prima voce e chitarra dei Big Black, poi, appunto degli Shellac, spigolosa band hardcore di Chicago, con excursu nei Rapeman, Albini è in realtà entrato nella storia del rock come produttore di album decisamente fondamentali. Primo tra tutti quel Surfer Rosa dei Pixies che non solo ci ha regalato la band di Black Francis, poi Frank Black, ma ha in qualche modo segnato l’alternative tutto, dando chiare indicazioni di quello che di lì a breve sarebbe stata la rivoluzione del grunge, l’album in questione è del 1988. E sempre lui, che non ha mai amato essere definito produttore, quanto piuttosto tecnico del suono, forse proprio per la presenza della parola suono nel nome, ha messo la firma a un capisaldo come In Utero, ultima traccia terrena dei Nirvana, andando poi, negli anni, a lavorare con tanti altri artisti, tutti nomi belli pesanti, basti solo pensare alla PJ Harvey di Rid of Me, i due Led Zeppelin Robert Plant e Jimmy Page, che lo hanno voluto dietro il banco quando sono tornati a collaborare con Walking Into Clarkdale. Un lavoro, il suo, che tendeva sempre a rendere il suono dei dischi il più fedele possibile a quello che gli artisti con cui lavorava avevano dal vivo, e tendeva anche a non giocare troppo di diplomazia, diciamo che negli anni i suoi “vaffanculo” rivolti al sistema, all’industria discografica, e a tutti quegli artisti che a quel sistema e quell’industria hanno venduto il culo sono forse diventati più famosi dei dischi da lui stesso prodotti, su tutti sono stati epici gli scazzi con Thurston Moore dei Sonic Youth, come quella con Oscar Powell riguardo la musica dance, il clubbing e più in generale l’uso dell’elettronica nei dischi. Hardcore anche nelle posizioni, radicalissime quanto i suoni della sua chitarra e del suo banco mixer, spigolosi e carichi di tensione elettrica. Non a caso uno come lui, radicale e più interessato al suono che ai numeri, ha collaborato con artisti italiani quali gli Zu, che prima o poi qualcuno si dovrà prendere la briga di celebrare nella maniera opportuna, e i catanesi Uzeda, oltre che coi 24 Grana di Francesco Di Bella, per cui ha prodotto in passato, nel 2011, La stessa barca, registrato presso gli studi di sua proprietà, gli Electrical Audio, nella sua Chicago.

Steve Albini con i Nirvana
Steve Albini con i Nirvana

Mettersi ora a fare l’elenco degli artisti che gli devono qualcosa, a partire proprio dalle produzioni, sarebbe esercizio inutile, al punto che neanche Wikipedia ci si sofferma troppo, tanto quanto andare a citare il singolo che coi Big Black ha dedicato al Duce, fatto che giusto il Corriere della Sera può infilare nel titolo in un suo commiato. Bastino i nomi dei Mogwai, dei Manic Street Preachers, dei Breeders, della Jon Spencer Blues Explosione, di Jarvis Cocker dei Pulp, dei Motorpsycho, dei Wire, dei Gogol Bordello, le Slint, i Jesus Lizard, i Brainiac, i Low, gli Helmet, i Boss Hog, i Superchunck, Ty Segall, Sunn O))), alla faccia che non volevo fare nomi. La notizia, tanto per sottolineare la tragicità dell’evento, è stata data da quel Pitchfork che nel mentre è stato inglobato da Condé Nast dentro GQ, scelta che sicuramente avrà schifato mesi fa uno come Steve Albini, incazzoso come pochi e indubbiamente poco incline a confondere la merda col cioccolato. Star qui ora a dire come un pezzo alla volta stiamo perdendo tutto il nostro patrimonio culturale, parlo di noi nati nel Novecento, sarebbe poco dignitoso, e decisamente poco hardcore. Quindi, siccome con la sua musica ho pogato, straight edge come un po’ tutta la scena di Washington DC, lui che quella disciplina non l’ha mai sposata, mi ritiro dentro il mio dolore di vecchio punk, lasciandovi a gioire per Baby Lasagna.

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