Da circa un lustro il vocabolario italiano ha dovuto accogliere il termine inglese “hater”, cedendo all’insistenza dei social network. “Hater” ha accezione unidirezionale, ossia solamente negativa, è un epiteto spregiativo che si riferisce ad un comportamento che si cristallizza come abitudine ossessiva, quella di “odiare”. Un odio che, però, si agisce nella scrittura, o in un messaggio video sul social network, è questo il luogo dove si consuma l’hating, perché si tratta dell’odio del vile, del miserabile, del codardo, il famoso “Leone da tastiera”, che quando si accanisce contro qualcuno insultandolo ripetutamente attraverso i commenti dei post diventa l’hater. Questa apparentemente leggera forma di perversione moderna si manifesta esclusivamente nella dimensione virtuale, cioè nella posizione remota, non di persona, perche tutta la ferocia, spesso di carattere moralistica e sprezzante dell’altro da una presunzione di superiorità, una volta che l’interlocutore bersaglio delle più crudeli offese è di fronte all’hater in carne ed ossa si trasforma in finta adulazione o in servilismo, si maschera subdolamente da contrario di sé, e questo sia perchè si tratta di individui non coraggiosi che non sanno canalizzare le frustrazioni e le sofferenze in modo creativamente edificante e sia perchè spesso l’odio è un effetto collaterale dell’invidia in coloro che il filosofo Cioran avrebbe definito "quelli che vorrebbero essere il loro nemico".
Sia chiaro che l’hater non è propenso al dialogo perchè è comunque immerso in una dimensione di distorsione percettiva come un’allucinazione costante che lo inquieta, odia perchè ha paura di una realtà che si è auto costruito, che non esiste, quindi i suoi messaggi sono accuse insulti e offese mandati come bombe, azioni terroristiche in contesti che sarebbero deputati allo scambio, al dialogo, non al turpiloquio, ma l’hater spara il suo odio e poi scappa, rende inaccessibile il contatto , blocca, si barrica, si nasconde, si rende irreperibile, quando è un utente comune gli basta fare profili occasionali, inventarsi nickname e praticare la sua compulsa scarica di insulti alla quale segue una ancora più furiosa reazione di “asfalto”di cui l’hater si vanta, perché è eccitato dal provocare reazioni, si sente finalmente considerato in qualche modo, come se non conoscesse altro modo più dignitoso e non violento di creare la relazione con la comunità, quindi è tragicamente convinto di aver “vinto”, di essere un “vincente”. Non intendendo ora scendere nell’analisi piu’ accurata del profilo di personalità da una prospettiva clinica mi limito solo ad osservare che la tematica dell’ essere persone vincenti o perdenti è ricorrente proprio nei contenuti dei messaggi di odio ed è un paradigma discriminante abbastanza tipico dell’hater proprio nelle convinzioni, nelle motivazioni, le ragioni dell’odio. In sintesi cosa vale la pena di odiare?
Chi è il bersaglio ideale per il professionista dell’odio? È l’individuo che si differenzia per qualsiasi ragione dal gruppo, è di fatto il “diverso” che oggi concentra su di sé tutte le maldicenze e il bullismo che non è più consentito dirigere verso il disabile o verso l’omosessuale, o verso la persona straniera, che erano una volta i bersagli su cui confluivano i sentimenti cattivi delle persone, la rabbia, la frustrazione, si concentravano su i “perdenti” che oggi sono intoccabili, e meno male, e quindi si è spostato il bersaglio su altro tipo di individui che sono rimasti, diciamo, “scoperti”, che non sono ancora stati protetti da disposizioni politico-culturali e attualmente vagano brutalizzati dalla violenza verbale e sono gli artisti.