Il processo noto con il nome di “Mani Pulite” inizia nel 1992 con la richiesta dell’ex magistrato Antonino Di Pietro di un ordine di cattura nei confronti di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Psi milanese. Fu, suo malgrado, protagonista indiscusso di tutto il processo Bettino Craxi, accusato di aver ricevuto una serie di tangenti, ma non solo. Ieri è tornato a parlare dell’annosa vicenda Piercamillo Davigo, uno degli ex magistrati più importanti nel panorama italiano, che ha rivolto una serie di accuse non solo nei confronti di Bettino Craxi, ma anche del figlio, Bobo Craxi, che definisce quel processo come “una sorta di guerra politica combattuta attraverso l’arma giudiziaria a scopo moralistico”. Il figlio di Bettino ci racconta come ha vissuto gli anni di “Mani Pulite”, come è stato per lui dover lasciare l'Italia a meno di trent'anni e che cosa resta della memoria politica del padre.
Bobo, ha visto la puntata del podcast “Muschio Selvaggio” con ospite l’ex magistrato Piercamillo Davigo?
Davigo è un ex magistrato in pensione, ha ricoperto ruoli di primo piano nella magistratura italiana, è stato procuratore a Milano, presidente di una sezione della Corte di Cassazione, è stato presidente di un sindacato di magistrati e infine membro del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm). In una trasmissione leggera si consente il lusso di trattare in modo ilare questioni che sono complesse e su cui gravano ancora degli interrogativi grandi come una casa e lo fa utilizzando l’arma del disprezzo verso di me e in particolare verso persone che non ci sono più, come mio padre Bettino.
Riferendosi a Chiesa, racconta Davigo, Craxi parlò di un caso isolato, mentre il problema dei finanziamenti illeciti era una prassi comune, “dando per scontato che i cittadini italiani sono una banda di imbecilli a cui raccontare tutto e il contrario di tutto che tanto troverai sempre qualcuno che ti sostiene”. Come risponde a questa affermazione dell’ex pm?
Per quanto riguarda questa frase, effettivamente erano cinquant’anni che un amministratore socialista a Milano non veniva accusato di reati contro la pubblica amministrazione. Quello era un caso a sé, parlo del caso Chiesa, quello che avvenne dopo fu un'inchiesta che colpì strumentalmente l'intero sistema politico per un reato, come quello dei finanziamenti illegali ai partiti, che aveva, durante il periodo della guerra fredda, un evidentissimo elemento di consuetudinarietà in tutto il sistema. Fu un'arma utilizzata per rovesciare un sistema politico e per introdurre qualcosa di nuovo che, alla fine, nuovo non è stato.
Lei ha sostenuto che la sinistra non sia stata toccata dalla maxinchiesta. Ma Davigo le risponde direttamente, parlando dell’amnistia che salvò, purtroppo, parte dell’opposizione: “Il partito comunista aveva ricevuto soldi in nero dall’Unione Sovietica, ma non potevamo farci niente, erano reati estinti”. Le ha dato anche dell’ignorante.
È riuscito con una frase a darmi dello stupido e dell'ignorante. Lo sanno anche i sassi che le forze di opposizione non furono sostanzialmente toccate e intere regioni non furono attraversate dall'inchiesta, a partire dalla Sicilia, dove la sparizione delle carte di Borsellino rimane un punto interrogativo, così come altre regioni del Centro Italia. Non ignoravo affatto l’esistenza dell’amnistia, tant’è vero che quell’amnistia, accettata di buon grado dal sistema politico, dall’opinione pubblica, non fu azionata per i medesimi reati con l’incalzare di “Mani Pulite”. Questo ha reso più facile il lavoro della magistratura, ma ebbe un effetto disastroso, perché con il golpismo a sfondo moralistico si distrussero le fondamenta democratiche di una nazione.
Poi si è parlato anche dell’intestare le vie a suo padre.
Quella è la parte più odiosa dell’argomentare delirante di Davigo, soprattutto quando afferma “se sei un ladro puoi diventare presidente del Consiglio”. È la tragedia di un uomo ridicolo che non resterà nella storia di questo Paese.
Nel 2021 Davigo, in studio da Giovanni Floris, disse: “Il giorno più brutto della mia vita da cittadino di questa Repubblica è stato quando Craxi in Parlamento disse ‘Sostanzialmente qui l'avete fatto tutti’ e nessuno si alzò a dirgli: ‘Ma come ti permetti, io no’”.
Dei giorni della vita di Davigo mi importa poco, ma mi importa sottolineare come quel discorso, a distanza di anni, sia stato rivalutato come una determinata e sincera analisi sulla vita amministrativa dei partiti e sulla prassi consolidata dell’irregolarità del finanziamento alla democrazia, accettato, naturalmente, condiviso, senza che questo però avesse determinato dei danni strutturali alla vita democratica del Paese. Nessuno si poteva alzare ad affermare il contrario, perché, chiaramente, quella prassi riguardava l’intero sistema politico italiano.
Ma suo padre com’era a casa durante quel periodo? E voi figli?
Avevamo capito di che cosa si trattasse, c’era in atto una sorta di guerra politica combattuta attraverso l’arma giudiziaria a scopo moralistico. Noi non eravamo Alice nel Paese delle meraviglie. Neanche mio padre. È ovvio che c’era preoccupazione, perché quello che stava avanzando a un certo punto assunse un crescendo violento e questa era la cosa che dava più preoccupazione. L’esaltazione dell’azione giudiziaria rischiava anche di degenerare in forme incontrollate, cosa che poi avvenne tra l’altro, perché ci furono diversi suicidi, ci furono degli attentati. A un certo punto la vita, in una situazione di disordine nazionale, determinò delle conseguenze pratiche, tant’è vero che lasciammo il Paese a un certo punto.
Com’è stato lasciare l’Italia?
Mia sorella rimase in Italia perché aveva i figli piccoli e il lavoro. La vivemmo male, ma poi l’uomo si adattata a tutto. Stavamo in un bel Paese, avevamo un bel clima e stavamo in una bella casa, che poi era casa nostra. Nel caso di mio padre si trattava di un uomo a cui avevano rovinato la vita e nel mio caso di un ragazzo, che non aveva ancora trent’anni, che si trovò improvvisamente catapultato in una vicenda enorme, di cui si vedeva l’inizio ma non si vedeva la fine.
Ora possiamo dire che la fine si vede?
La vita poi è andata avanti, ma per quasi sei o sette anni abbiamo vissuto questo incubo. Poi mio padre mancò e con questa croce abbiamo vissuto il resto della nostra vita. La nostra vita cambiò letteralmente, sono traumi difficili. Ciascuno poi lo interpreta e lo affronta a modo proprio, ma comunque sono traumi dell’esistenza.
Pesa oggi portare il cognome Craxi?
No, per nulla, perché poi alla fine, come era naturale, la storia ha rovesciato il verdetto e ne ha rovesciato l’interpretazione. Allora si trattava di una visione monolitica di un’azione giudiziaria che non era altro che un’azione politica. Con il senno di poi oggi si possono riscrivere le pagine in modo diverso, tant’è che Davigo è costretto a parlare della sua carriera con il pur bravo Fedez, ma è totalmente dimenticato e non verrà per nulla ricordato per le sue gesta. Mio padre, Bettino Craxi, invece, rimane uno degli uomini politici più rappresentativi del dopoguerra repubblicano. Io ho vissuto dignitosamente una stagione politica, ho cercato di rimboccarmi le maniche e di stare a galla come ho potuto. Anche se la mia vita non è stata una passeggiata.
Lei prima ha parlato dei suicidi che ci sono stati a causa del processo di “Mani Pulite”, argomento che è stato affrontato anche da Fedez durante la puntata di ieri con Davigo. Come ritiene l’atteggiamento che hanno avuto i magistrati in passato su questo tema?
Quel gruppo di testa di “Mani Pulite” assunse anche una postura piuttosto cinica. Ci fu un giudice che disse, in occasione della morte di Sergio Moroni, che c'è anche chi si uccide per la vergogna. Erano assetati di potere e, nella loro sete di potere, avevano anche dismesso un po’ il valore necessario per chi svolge quella funzione, che è quello di avere un principio di umanità.
Che lei sappia, agiva in autonomia la magistratura su quel processo? C’è chi dice di no…
È presumibile che questi magistrati non agissero in modo solitario e che la destabilizzazione del Paese abbia avuto un interesse e anche un sostegno di carattere internazionale. Non so dire in che misura e con quale tipo di relazione questo sia avvenuto, Cossiga mi parlava della loro vicinanza ad alcune entità straniere, di Di Pietro si sa che aveva un ottimo rapporto con l'Fbi, non so dire gli altri, se non per qualche spiffero che in questi anni mi è arrivato.
Lei crede nel fatto che dei cognomi possono essere riabilitati nel tempo?
Il cognome di mio padre è riabilitato, è moneta corrente la sua politica, perché di quel governo e di quell'azione politica se ne discute ancora oggi, molto più di tanti altri uomini politici del nostro Paese che magari hanno avuto una sorte meno tragica. Questo significa che nella sua azione politica c'era consistenza e robustezza.
C'è un politico in cui oggi rivede il pensiero di suo padre?
In nessuno. Non perché siano scarsi, ma perché il mondo è cambiato, come è cambiato il modo di fare politica. Ciascuno verrà ricordato secondo i suoi meriti e secondo le sue caratteristiche. Quella stagione lì non è più replicabile negli stessi termini. Dopodiché ci sono idee e argomenti di mio padre che sono ancora assolutamente validi e attuali.
Questo capitolo lei lo considera chiuso?
Sì e non va riaperto. Davigo lo riapre ma lo fa in forme grottesche. Ieri gli ho risposto con le parole del poeta Leopardi: “Non so se il riso o la pietà prevale”.
Allora glielo chiedo io, prevale il riso o la pietà verso Davigo?
La seconda, perché mi hanno insegnato che, quando gli uomini superano una certa età, è consigliabile non polemizzare con loro per una forma di rispetto e di educazione e anche di riserbo, perché io sono un uomo riservato.