Jacopo Veneziani è uno dei più interessanti divulgatori (e noti) della nuova generazione. Ha vissuto per molti anni a Parigi, dove sta prendendo un dottorato (alla Sorbona) in storia dell’arte. Con i suoi profili social - Twitter, YouTube, Instagram – racconta l’arte facendola sembrare incredibilmente vicina e affascinante. Social network a parte il grandissimo pubblico Veneziani lo raggiunge partecipando come ospite fisso alla trasmissione di Massimo Gramellini “Le parole della settimana” nella quale, prendendo spunto dall’attualità, sceglie una parola o un’espressione e la approfondisce proprio attraverso la storia dell’arte. Da poche settimane è uscito il suo secondo libro “Simmetrie”, edito da Mondadori Electa e proprio da suo ultimo lavoro comincia la nostra chiacchierata.
Jacopo, che cos’è simmetrie?
Simmetrie è un libro che contiene dieci associazioni tra opere d’arte che apparentemente non hanno nulla in comune perché realizzate da artisti lontani nello spazio e nel tempo, ma che in profondità esprimono uno stesso concetto. Mi viene in mente l’immagine di due alberi che visti da fuori sono diversi per forma, colore, grandezza e i loro rami nemmeno si sfiorano, ma cambiando prospettiva e andando con lo sguardo sotto terra vediamo come le radici di entrambi si intreccino, prendendo nutrimento dallo stesso identico suolo. Apro il libro affiancando La natività del Masaccio con I Tagli di Lucio Fontana
E uno pensa: cosa c’entrano?
Esatto. Da una parte siamo nella Firenze del ‘400 e dall’altra nella Milano a metà del Novecento. Ma entrambi gli artisti esprimono il desiderio di andare oltre la superficie pittorica. Uno lo fa con la prospettiva che gli permette di sfondare la bidimensionalità della parete e creare quella che oggi chiameremmo una realtà virtuale dentro la cappella di Santa Maria Novella e l’altro sfonda la tela squarciando il quadro per manifestare una nuova consapevolezza dell’uomo che ormai sa di non essere al centro dell’universo, siamo al tempo delle prime esplorazioni spaziali e l’artista osserva uno spiraglio di buio in attesa di scoprire dove lo porterà la tecnologia.
Lo scorso anno avevi pubblicato #Divulgo, che nasceva con l’intento di raccontare la storia dell’arte. Simmetrie è una sorta di seguito?
Credo di no, questo non è un Volume 2. Rispetto a #Divulgo, qui troviamo anche l’arte del ‘900. Però diciamo che rispetto al primo libro si mantiene l’idea di poterne fruire in maniera non tradizionale, saltando da una parte all’altra mantenendo un taglio social per la brevità degli approfondimenti.
La divulgazione è simmetrica o asimmetrica? Chi spiega deve sbilanciarsi verso chi ascolta?
Domanda marzulliana (ride ndr), ma molto sensata. Dato che parliamo di divulgazione scomodo Piero Angela che dice spesso questa frase: cerco di stare dalla parte della scienza per il contenuto e dalla parte delle persone comuni per il linguaggio. Io aggiungo che sta al divulgatore fare da pendolare tra mondo della ricerca e quello delle persone comuni, il cosiddetto grande pubblico. Più che di simmetria parlerei di ping-pong tra questi due mondi con il divulgatore che ha il ruolo della pallina e non deve tradire nessuna delle due parti in campo.
Che intendi per tradire?
Che non deve dire falsità, ma non deve nemmeno parlare come gli articoli delle riviste scientifiche con trecento note. Piuttosto quegli articoli il divulgatore li deve usare come materia prima per costruire un percorso più appetibile.
A quali divulgatori ti ispiri? Hai citato Piero Angela, hai detto di avere in suo figlio Alberto il punto di riferimento e recentemente hai pubblicato una foto sui tuoi social dove sei con Barbero… a proposito: ci sono novità in vista?
Allora voglio subito parlare della foto con Barbero che me lo state chiedendo in tanti. Siamo stati fotografati insieme in un castello medievale, ma è stato un puro caso. Io sono stato invitato a visitare il castello di Torrechiara, vicino Parma e lui era lì perché doveva parlare a un convegno. Ma no, non stiamo preparando niente insieme.
Peccato! Torniamo alla prima domanda…
I due Angela, Barbero, Daverio, Flavio Caroli sono tutte persone da cui cerco di carpire lo stile comunicativo. Se guardiamo i loro lavori scopriamo che hanno punti in comune, che poi sono le fondamenta della buona divulgazione. Daverio, ad esempio, non tratta la storia dell’arte come una disciplina, ma come un insieme di storie in cui mischia l’alto con il basso facendo emergere l’umanità. Alberto Angela invece porta il passato vicino a noi. Pensa a quando presenta il Foro Romano come la Time Square del mondo antico. Lui sta usando un metro attuale per dare a tutti la possibilità di fare un confronto immediato. La divulgazione poi non deve raccontare tutto. Deve lasciare delle zone d’ombra per andare poi a scoprire qualcosa in più da soli. E Alberto Angela è uno che ci fa venire voglia di visitare i luoghi di cui ci parla. Non a caso il sottotitolo di Ulisse è Il piacere della scoperta. Per risponderti: diciamo che io rubo da loro, ma poi cerco poi di metterci del mio.
Social, libri e televisione (su una rete nazionale). Sono tutti strumenti validi per divulgare. Quale preferisci?
Sono complementari e hanno pure caratteristiche in comune. Al di là dei social e dei libri mi è sempre piaciuta la tv, è il mezzo che forse ha più malleabilità e potenzialità ancora oggi. Quando dico TV intendo l’universo in cui riprodurre contenuti. L’elettrodomestico che si guarda dal divano prima o poi sparirà.
Insomma, salvi il concetto di infotainment, poi che sia una TV in salotto o una piattaforma su pc cambia poco.
Sì, e poi la TV è più immediata. Se scrivo una cosa a pagina 112 del mio libro, quella cosa la leggerà chi ha comprato il libro, che poi ha iniziato a leggerlo e poi è arrivato a voltare pagina 111. La TV è più immediata perché deve parlare anche a chi sta facendo zapping perché su un altro canale c’è la pubblicità. In ogni secondo della TV io devo far capire dove siamo, di cosa parliamo e dove stiamo andando. E questo è molto stimolante.
Torniamo a parlare di Simmetrie. Mi incuriosisce l’introduzione in cui parli di anacronismo delle immagini. Me lo spieghi meglio?
Si tratta di un concetto studiato in modo approfondito da un francese, George Didi Huberman, ed è il punto concettuale da cui sono partito per associare in modo anacronistico artisti che apparentemente non hanno nulla in comune. Si pensa che un’opera debba essere studiata contestualizzandola esclusivamente nell’epoca in cui è stata prodotta e mi spiego: se sto parlando di un affresco del 400, devo fingere di essere un uomo del 400 perché altrimenti sfocerei, accademicamente, nell’anacronismo. Invece Huberman dice (e poi è quello che voglio dire anche io col libro) di non dimenticarci del nostro punto di vista di spettatori del XXI secolo, perché ci consente di sbloccare pensieri inediti.
Hai scritto questo libro durante la seconda ondata del Covid, mentre era tutto chiuso. Da storico dell’arte che vive per raccontare ciò che sta nei musei, quanto ha pesato questa cosa?
Inconsapevolmente ha avuto un impatto. Alla fine abbiamo capito – ma era già una cosa che pensavo a marzo 2020 – che la fruizione virtuale e fisica del patrimonio artistico fanno parte della stessa medaglia e sono complementari. Non potendoci spostare in modo libero, siamo diventati più agili in una sfera virtuale.
Come è andata la stagione con Gramellini? E quale parola d’arte ti porti dietro tra tutte quelle che hai raccontato?
È un bilancio positivo, sono felice per l’opportunità e spero di poterla ripetere. Le parole le sceglievamo partendo da un evento della settimana e in questo modo dimostravamo come la storia dell’arte fosse attuale e sovrapponibile alla realtà. Un’espressione a cui tengo e che ho raccontato è stata “amore a distanza”. Partimmo dalla foto di una figlia che osservava la mamma in ospedale per il Covid. Da lì ho parlato dell’amore a distanza nell’arte. Ci sono opere che anche se realizzate secoli fa che continuano a parlarci. L’arte è come osservare noi stessi allo specchio e ci mette a tu per tu col nostro stato d’animo.