Nel mio quartiere c’è una donna con evidenti problemi mentali. Dico evidenti perché la cosa è chiara anche a chi, come me, nulla sa di lei, se non quello che mi capita di vedere incrociandola saltuariamente per strada. È una donna di poco più di quarant’anni, molto alta, non eccessivamente magra, e veste in una maniera piuttosto eccentrica. Dico eccentrica sia che si voglia guardare al suo look in generale, sia che ci si voglia soffermare in quella che sembra sia la sua professione, e qui torniamo alla faccenda dei problemi mentali, termine che probabilmente è inesatto, e che quindi tradisce la mia ignoranza a riguardo e mi farà indubbiamente incappare in qualche gaffes. La donna in questione, infatti, veste sempre abiti piuttosto striminziti, con gonne che le corono a stento le lunghe gambe, sarà alta almeno un metro e ottanta. Gli abiti sono sempre e immancabilmente su tinte fucsia. Porta sempre delle scarpe con tacchi altissimi, ben oltre i dodici centimetri, ai piedi, sempre senza calze. A chiudere il look, ripeto, piuttosto eccentrico, una coroncina come quella delle bambine che vogliono giocare alla principessa, tutta dorata. D’inverno, sempre con la medesima mise, indossa una pelliccia sintetica bianco sporco, di quelle corte. La donna, che passeggia goffamente, vista l’altezza e i tacchi spropositati, si prostituisce sul marciapiede della lunga arteria che attraversa il quartiere. Più che si prostituisce, credo, dovrei dire vorrebbe prostituirsi, perché seppur io la incontri non di frequente, la vedo sempre aggirarsi esibendo un’aria volutamente lasciva, ma non ho mai visto nessuno fermarsi a contrattare con lei. A vederla in strada, mentre passeggia costantemente su quei trampoli, è palpabile il suo avere problemi, faticherei a pensare a chi si potrebbe fermare, e chi vuole leggere un giudizio morale in quel che ho appena scritto, probabilmente, ha letto correttamente. Tempo fa, parlo di quasi venti anni fa, subito dopo che siamo venuti a vivere in questo quartiere, vicino a casa nostra c’era una giovane ragazza sudamericana che si prostituiva durante le ore del giorno. Si fermava davanti a una boutique di un giovane stilista a sua volta sudamericano, aperta proprio in quei giorni, e si limitava a starsene ferma in strada, appoggiata a un’auto parcheggiata lì. Era giovane, vestita come una qualsiasi ragazza, niente di particolarmente vistoso o provocante, ma era la sua fisicità a essere debordante, rigogliosa. Neanche il tempo di appoggiarsi all’auto parcheggiata che qualcuno si fermava, lei si chinava sul finestrino del lato del passeggero, diceva qualcosa, immagino contrattassero, poi saliva in auto e partiva. Una scena, anche qui leggete pure tutto il giudizio morale che ritenete, che trovavo tendenzialmente inquietante, non perché non fossi a conoscenza dell’esistenza delle prostitute, sia chiaro, ma perché abito in un quartiere semicentrale, molto abitata, vicino alla zona del Politecnico, la strada lungo la quale si svolgeva la scena era appunto l’arteria molto trafficata di cui sopra, l’idea che qualcuno battesse, basta con questa ipocrisia del parlare di prostituzione, alla luce del sole, e che questo qualcuno fosse decisamente giovane, apparentemente non vittima di una qualche forma di schiavismo sessuale, i maltrattamenti, i documenti sequestrati, quelle storie lì, mi metteva a disagio. Anche perché la ragazza era decisamente vitale, e anche per questo, a differenza della donna con la corona da principessa, non ha mai faticato a trovare clienti, maledetti. A Milano ci sono prostitute che battono durante il giorno, in zone semicentrali e centrali. Ce n’è una, procacissima, che batte a ridosso della scuola frequentata dai miei figli piccoli, in una strada piuttosto trafficata che porta verso Corso Buenos Aires, e poi più in là verso Stazione Centrale. Un giorno, anni fa, mi ha chiesto se potevo parcheggiare altrove la mia auto, questo dopo che avevo già parcheggiato l’auto, perché la mia monovolume scura, coi vetri oscurati impediva a chi passasse di lì in auto di vederla. La pubblicità è l’anima del commercio, mi sono detto ridendo sotto i baffi, e spostando ovviamente la mia auto. In quel momento non ho espresso giudizi morali, e non saprei neanche dire perché, forse il vedere la tipa così proattiva mi ha distratto dal senso di quel che stava facendo, e non è comunque qualcosa che sia inerente al campo dell’etica il motivo per cui vi sto raccontando questa storia, e le storie che le fanno da cornice.
Vedo questa donna, versione pelliccia bianco sporco, coroncina da principessa e tacco sedici, mentre vado verso la metropolitana. Mentre andiamo alla metropolitana, a dirla tutta, sono con mia moglie e nostra figlia piccola, Chiara, tredici anni. Stiamo andando verso il centro, per fare degli acquisti a tema natalizio. La metro è abbastanza sguarnita di gente, troviamo quindi posto seduti. Di fronte a noi c’è una coppia giovane, lei ha un’aria buffa, un cappellino di lana a incorniciare un viso che la fa somigliare vagamente a Ciccio, il cugino di Paperino. Lui ha la testa ricoperta da un sottile strato di capelli, tagliati esattamente della stessa lunghezza della barba. Le tiene la mano, mentre lei ha le gambe appoggiate sulle sue ginocchia, come se avesse dei problemi di pressione e dovesse tenerle sollevate. Gli sta raccontando in maniera non troppo convincente di come abbia anche provato a perdere peso, senza per altro che lui glielo abbia chiesto, ma come sia subentrato non so che inghippo per cui l’operazione non è riuscita. Dice che ci ha provato “anche per quella faccenda dello yoga”, e poi passa agilmente a raccontare di cosa intenda lei per yoga. È una spiegazione sempre poco convincente, come di chi si trovi a dover fare un’interrogazione a scuola su un argomento di cui è poco pratico. Si ferma di continuo, tentenna, usa termini poco precisi. Il tema è che lo yoga l’ha cominciato perché ha avuto dei problemi di respirazione, e lei nello yoga ha cercato soprattutto quello, l’imparare a respirare correttamente. Dice che lo yoga avrebbe anche dovuto aiutarla a mettersi più a fuoco, senza entrare però in profondità, e lasciando quindi ampi margini di dubbio. A fuoco in che senso, avrei voluto chiederle. Professionalmente, esistenzialmente, sempre riguardo quella faccenda del respirare? Lui guarda verso di lei, sempre continuando a accarezzarle le mani, che tiene tra le sue, ma ha evidentemente lo sguardo distratto. Sembra il medesimo sguardo dei bambini che, con o senza pannolino, si perdono nel vuoto mentre stanno finalmente facendo la pipì. Lui, credo, non sta però pisciando. Semplicemente si distrae, anche perché lei non sta facendo nulla per tenere salda la sua attenzione. Lei è però presa parecchio da quel che sta confusamente dicendo. Al punto che perdono la fermata dove sarebbero dovuti scendere, per poi prendere un’altra linea, diretti in piazza Duomo. Lei era presa dallo yoga, lui dai cazzi suoi. Decidono quindi di scendere poco dopo, a un’altra fermata che incrocia un’altra linea, poco male. Mentre lei sta dissertando sullo yoga e lui sta guardando nel vuoto mando un messaggio su Whatsapp a mia moglie, a un sedile da me, in mezzo c’è nostra figlia. C’è scritto “il gran cazzo che a questo di fronte frega dello yoga”. Lei lo legge, sorride e mi dice, “stavo pensando esattamente la stessa cosa”. Siamo sposati da venticinque anni, e insieme da trentasei, mica per caso. Arriva la nostra fermata, scendiamo. Siamo in zona Garibaldi, e per la prima volta ci accorgiamo che nella stazione della metro c’è un bassorilievo, sembrerebbe in bronzo, che rappresenta appunto il titolare. Passiamo da Piazza Gae Aulenti, non prima di aver notato, mentre saliamo con le scale mobili, come quelli che un tempo erano i soli due grattacieli del quartiere, immortalati da Gilberto Squizzato in uno dei suoi lavori come fossero le Twin Towers milanesi, oggi sembrano piccole palazzine, circondate come sono dai tanti nuovi grattacieli che qui sono spuntati. Passiamo per Corso Como, lasciandoci alla destra l’ex negozio di Chiara Ferragni, dove al momento un tizio sta addobbando una enorme ghirlanda natalizia, entriamo a Corso Como 10, casa Sozzani, giusto per sentirci un po’ più poveri di quel che in fondo siamo, e poi proseguiamo verso corso Garibaldi, diretti verso Brera. Qui entriamo in alcuni negozi, compreso uno che propone oggetti di design molto raffinato, a prezzi spropositati. Vendono di tutto, dalle cialde di caffè, più care che se il caffè lo andassimo prendere al Florian di Piazza San Marco a Venezia, a tazze fatte come fossero piccoli cactus stilizzati, passando per oggetti in simil pelle e chi più ne ha più ne metta. Ci sono tre commesse, una delle quali intenta a cucire quello che a prima vista sembra un tamburo a cornice di quelli tipici della tradizione molisana. In mezzo alle altre due commesse, ma immagino che ci sia un nome decisamente più idoneo e moderno per chiamarle, anche perché par di capire siano le tre socie proprietarie del negozio, c’è un’altra signora. Sembrano tutte intorno a i cinquant’anni. Forse anche di più. La cliente e una delle due socie incrociano lo sguardo, e danno vita a un dialogo che potrebbe suppergiù suonare così: “Ma tu non sei…”, “Sì, vero, anche tu non sei…”, “Pucci,” dice la socia rivolta alla sua collega, “Ma sai che lei dovrebbe essere…”, “Ma dai, davvero?”, risponde quella. Per essere chiari i puntini di sospensione non sono lì per salvare la privacy delle tre sciure, uso un orribile termine milanese perché di sciure si tratta, ma perché le frasi vengono sempre tagliate a metà, lasciando appunto delle sospensioni. La socia che sta parlando con la cliente riprende, “Mi sembrava di averti riconosciuto”, “Sì, anche a me,” fa la cliente, “è che fin qui ci siamo giuste sfiorate una volta”, prosegue, “Sì, parlavo di te tempo fa con la Vale,” e questa cosa degli articoli prima dei nomi propri è ciò che da sola giustificherebbe l’uso del termine sciure, non bastasse dove siamo, come sono vestite e come parlano. Per la cronaca, le parole che avete lette dovete pensarle in fortissimo accento milanese, che per chiunque non sia di Milano, non sia uso frequentare Milano, o non viva comunque a Milano pur non essendo di Milano, chi ci è nato non tende a capirlo, significa pronunciare tutte le vocali che in italiano sono chiuse come aperte e viceversa, non azzeccandone neanche una. Riprendo, quindi. “Perché tu sei la madre di…”, “Sì, esatto, di Edo, tu invece della Vale”, il nome Valentina, abbreviato in Vale è molto diffuso, si direbbe, “sì, esatto,” dice la socia, poi guardando alla sua collega, “Edo e la Vale vanno a scuola insieme, da…”, “Credo già dall’asilo,” aggiunge la cliente. Mia moglie vorrebbe comprare una tazza a forma di cactus stilizzato per una nostra amica. Costa cinquanta euro netti. La dicitura, evidentemente per gente straniera o gente che fatica a capire il senso delle cose che ha di fronte, dice “tazza cappuccino”, chissà se ce ne sono di diverse per il tè, per le tisane o il cazzo che uno vuole mettere in una tazza, in quanto tale, versione grande di una tazzina, l’italiano sta lì a dircelo chiaramente senza dover tiare in ballo il cappuccino. Cappuccino che a breve vedremo accompagnare le cene anticipate di turisti, lì nei bistrot di Brera, incapaci di comprendere che non puoi mangiare la pasta agli scampi pasteggiando col cappuccino e pretendere al tempo stesso il mio rispetto, ma questa è altra faccenda, torno alla scena che sto descrivendo, quella delle sciure. La guarda con il medesimo sguardo carico di odio che ha Samuel L. Jackson in quel meme che circola che ce lo mostra in canottiera bianca, lo sguardo del diavolo e che recita “L’80% del tuo lavoro di genitore è fissare così i tuo figli fino a quando non si comportano bene”. Mia moglie lascia la tazza sul tavolo, un tavolo composto di un unico pezzo di ulivo pesante, credo, come dovrebbe essere sostenere una qualsiasi chiacchierata con le donne che si trovano dentro questo negozio, mia moglie e la tipa che prepara il tamburo a cornice escluse. Usciamo, e mentre stiamo uscendo dico a mia moglie che in certe occasioni, questa per esempio, vorrei essere dotato di quei così con cui in Vietnam spargevano Napalm nella foresta, consapevole di aver inutilmente evocato una delle pagine più brutte della fine del Novecento. Il fatto è che certi atteggiamenti da sciure, cioè quell’ostentare una certa attenzione verso questioni sociali, le sciure di solito hanno sempre qualche capo apparentemente attinente al campo dell’equo e solidale, un casual che però costa quanto una utilitaria, e sono sempre molto impegnate, al punto da non conoscere neanche i compagni di classe dei figli, anche se poi a ben vedere non fanno quasi mai un cazzo, hanno bici con fiori finti nel cestino davanti, un tempo anche coccarde arancioni, a simboleggiare la rivoluzione che ha liberato il centro di Milano dalla Moratti, parlando a suon di Pucci e Titti, e rivendicano a ogni piè sospinto il loro essere comunque parte di una èlite di cui noi comuni mortali non faremo mai parte, manco se comprassimo un intero set di tazze a forma di cactus stilizzato da cinquanta euro l’una. Ecco, le sciure sottintendono che sia normale spendere cinquanta euro per una tazza a forma di cactus stilizzato, o dodici euro per cinque capsule di caffè espresso. Non hanno il pudore di ritenere queste loro convinzioni segrete, e io le odio, le odio con tutto me stesso.
Mi fermo. Ho raccontato una piccola storia di vita milanese, usando alcuni vieti stereotipi femminili, come l’ultimo dei maschilisti. Vero, sono partito da quella che è indubbiamente la parte meno banale, nel senso che la tizia che pensando di essere una principessa prova a svendere il proprio corpo, non riuscendoci, è indubbiamente più originale di una tizia che ammorba il proprio ragazzo parlando a vanvera di yoga o delle tizie altoborghesi che se la cantano, inconsapevoli di offrire non un edificante quadretto di loro stesse, ma pur sempre di stereotipi ho parlato. Anche se stereotipi non sono, quanto piuttosto corpi e anime reali che quegli stereotipi sono andati in qualche modo a incarnare. In tutto ci ho messo il mio sguardo. Non solo, quindi, la mia lingua, quella usata per mettere in scena il racconto, ma anche il mio giudizio morale, il mio sarcasmo, il mio fastidio. Ho corredato il racconto di dettagli di volta in volta pertinenti alle sensazioni che volevo evocare. La coroncina da principessa contrapposta al tacco sedici da mistress, il tutto su un abitino fucsia. La faccia da Ciccio di Paperino dell’appassionata di yoga, unico allo sguardo da ebete del suo fidanzato che sarebbe voluto essere altrove, alla faccia di David Gilmour. Le tazze da cappuccino a forma di cactus stilizzato da cinquanta euro delle sciure del negozio di Brera. Si chiama mestiere, il mio, quello dello scrittore. Ma è la realtà, giuro, a avermi fornito tutti i dettagli che mi servivano, per quanto io sia indubbiamente dotato di fantasia non so se mi sarebbero venute in mente queste tre “maschere”. O almeno, non so se mi sarebbe venuto in mente di incastrarle in un unico racconto, perché confesso che mentre la seconda e le terze sono in effetti frutto di un medesimo momento, la prima è parte della mia quotidianità, almeno saltuariamente, da che abito dove abito ora, un quartiere che mi vede residente da ben diciotto anni. Una figura quindi ricorrente che però non ho incontrato mentre stavo andando a passeggiare con mia moglie e nostra figlia, quello è frutto del mestiere, star qui a dirvelo forse un inutile esercizio di sincerità, inutile ai fini della narrazione e anche del motivo per cui la narrazione ha avuto luogo. Ecco, perché vi ho raccontato questa storia? O queste storie? Suppongo ve lo stiate chiedendo, e suppongo che il mio tergiversare, qui, anche tirando in ballo vostre ipotetiche quanto legittime domande a riguardo, non può che essere ai vostri occhi un temporeggiare dovuto all’assenza di un risposta sufficientemente valida. In realtà, lasciatemi lavorare, questo portarvi un po’ a spasso con le parole è per mettere sufficiente spazio e tempo tra il racconto appena fatto e le conclusioni, come a digerire le informazioni, metabolizzarle e trarne il nutrimento per l’ultimo passaggio, indubbiamente il più complesso sul menu del giorno. Il menu del giorno che è il nuovo singolo di Jovanotti, Montecristo, brano che lo vede nuovamente collaborare con Dardust, per qualche attimo tornato al pop da quel mondo fatto di suoni nel quale sembra si voglia sempre di più ritirare. Un brano strano, Montecristo, a partire dal titolo che evoca un classico della letteratura francese e non solo francese, il tutto appoggiato su suoni che, come un tiramisù scomposto, lì sul piatto un savoiardo, una tazzina con del caffè, la crema fatta col mascarpone e il rosso d’uovo, le scaglie di cioccolato, a noi mescolare il tutto, ultimamente mi sto trovando un po’ troppo spesso a citare la cucina scomposta, perdo colpi, ecco, Montecristo che si poggia su suoni che, come un tiramisù scomposto, prova a ricostruire il reggaeton eliminando tutte quelle asperità che ce lo fanno sembrare tamarro, cioè esattamente quel che il reggaeton è. Un reggaeton elegante, che è un ossimoro bello e buono, al pari del rumore sordo, con quell’intro di archi, quel testo colto, quel video, perché Montecristo ha anche un video che lo accompagna, ovviamente, un video che addirittura mi ha fornito l’assist incredibile di cavalli che corrono sull’acqua, pensa te, talmente elegante che ci ho pure messo un po’ a capire che in fondo era un reggaeton. Come se necessitassi di una didascalia, come Jovanotti che canta “Il conte si vendicherà/ come succede da sempre/ nel libro di Dumas/ Alexander Dumas”, a specificare che Dumà, così si pronuncia, non è un brand di quelli di prodotti per l’igiene, o chissà cosa, ma il cognome di un tizio che si chiamava Alexandre e scriveva libri destinati a diventare classici, oltre al Conte di Montecristo anche i ciclo dei Tre moschettieri o Pauline o Il tulipano nero, vaglielo poi a spiegare a quelli che necessitano di didascalie che di Alexandre Dumas c’è anche il figlio, a sua volta scrittore, suo Il signore delle camelie, tra gli altri. Sarà che noi non siamo legati al ritmo come popoli di altre parti della terra, quanto piuttosto alla melodia e quindi all’armonia, quindi in un reggaeton scomposto tendiamo a concentrarci su altro. O sarà che Jovanotti è fermo ormai da un po’, per quel suo incidente mentre era a Santo Domingo in bici, e il suo ritorno è già sufficientemente distraente di suo. Montecristo, però, gran titolo, grande arrangiamento di Dardust, anche grande testo, a dirla tutta, molto jovanottiano di quando Jovanotti è ispirato e gioca la carta del peripatetico, lì a saltabeccare tra introspezione e citazioni colte, frasi a effetto e sguardo profondo verso la vita. Ecco, dovessi presentare su un piatto Montecristo di Jovanotti, e Dio solo sa perché io abbia deciso di presentare su un piatto Montecristo di Jovannti, lo presenterei appunto scomposto, come ormai usa nei ristoranti stellati, quelli dove paghi un occhio della testa e quando esci spesso ti va di fermarti al primo kebabbaro per riempire lo stomaco, sempre augurandoti in cuor tuo che la carne che gira sul girarrosto del kebabbaro, forse il girokebab, sia tutta proveniente da allevamenti che si prendono cura degli animali, no allevamenti intensivi, perché anche tu sei un animo sensibile, di quelli che avesse il tempo di non andare a fare la spesa al supermercato, volendo non dovendolo fare anche per una faccenda di economie, mica sei le sciure che vendono o acquistano tazze a forma di cactus stilizzato per bere il cappuccino, potendolo fare saresti già diventato vegano, non fosse altro per non farti rompere il cazzo ogni volta che ne incontri uno, anzi, per aver modo di diventare tu stesso quello autorizzato, autorizzato da te medesimo, come Napoleone che si autoincoronava esattamente di duecentoventi anni fa imperatore, scrivo mentre è il 2 dicembre 2024, lo dico per i posteri, per altro passeggiando per Brera ho finalmente visto la famosa statua di Napoleone nudo, dentro il cortile dell’Accademia, famosa almeno per chi frequenta l’accademia in questione, incidentalmente mia figlia Lucia, quella Lucia che ben conoscete perché scrive qui. Comunque, dai, esco dall’impasse, il Montecristo scomposto è esattamente spiattellato lì, nel racconto che ha aperto questo pezzo, provateci voi a chiamare articolo la cosa che state leggendo. Gli ingredienti sono esattamente quelli. C’è una sensuale regalità, che però non emerge a sufficienza, Jovanotti è da sempre asessuato, credo lo sappia anche lui, parlo ovviamente di Jovanotti, non di Lorenzo Cherubini, dico l’ovvio. C’è il goffo tentativo di affrontare argomenti senza che questi argomenti in fondo siano del tutto di sua competenza. Fossimo fuori dal novero dell’arte parleremmo forse di fuffaguru, ma certi tipi di artisti sono spesso fuffaguru e lui è il principe di quegli artisti lì. Certo, la vita è di competenza di chiunque viva, e ci mancherebbe pure altro, ma il raccontarla, beh, è altra faccenda, a farlo goffamente finisci per assomigliare incredibilmente alla tizia che sembra Ciccio di Paperino, a parlare di yoga mentre il tuo ragazzo fissa il vuoto come stesse pisciando. Infine ecco che c’è quella tipologia di maschera lì, quella che si racconta come attenta al mondo, le capsule di caffè che arriva da quella determinata azienda di indio di Dio solo sa dove, ma lo fa in quanto parte di una èlite di privilegiati che può dedicare il proprio tempo a distrarsi mentre la vita, per dirla con John Lennon, avveniva altrove. Certo, il bridge “Un giorno dell’estate del ‘76, quando dissi a me stesso ‘hey diventa quello che sei, non come vogliono loro, se trovi la tua voce sarà un piacere anche cantare in coro’” è assolutamente azzeccato, di più, bello, o buono come una crema di mascarpone e rosso d’uovo dove lo chef ha saputo equilibrare i gusti, aggiungendo il giusto pizzico di zucchero, ma l’insieme è sempre quello di un piatto dove vedi un savoiardo, una tazzina di caffè, una tazzina a forma di tazzina, non di cactus stilizzato, una ciotola con dentro la crema di mascarpone e rosso d’uovo, e le scaglie di cioccolato, mentre tu pensavi di trovarti di fronte un tiramisù. Jovanotti, ospite di Belve, ha detto tante cose, tra le altre sono state citate tre persone cui non piace, e posso assicurare che non rientro in quel novero. Montecristo mi piace, esteticamente. Come parte delle canzoni di Jovanotti. Ho solo provato a raccontare cosa credo si trovi dietro quella bella facciata. So che scriverla oggi, mentre tutti lodano la sua umanità, la sua simpatia e via discorrendo può suonare come una provocazione, ma io parlo di canzoni, non di persone. Sono un critico musicale. Venite a dirmi che quando scrivo scrivo sempre di me e che manca la critica musicale, Dio santo. Più critica musicale di così, non so cosa dovrei mai scrivere. E dire che nel video c’erano quei cavalli che correvano nell’acqua e me la sarei potuta sbrigare in poche battute...