Una vicenda dal profondo valore simbolico, che per molti equivale ad una sorta di processo alla libertà di stampa, tema che spesso ha ispirato anche il cinema. Ne abbiamo parlato con il regista Michele Diomà che alla “libertà di stampa” ha dedicato un film “Sweet Democracy” al quale ha partecipato come special guest anche il drammaturgo premio Nobel Dario Fo.
Michele qual è il rapporto tra cinema e libertà di stampa?
Spesso quanto si nasconde dietro l’impalcatura del giornalismo ha ispirato il cinema, basti pensare a Citizen Kane di Orson Welles, per me sul piano sia estetico che sociologico il più importante film della storia del cinema, ma gli esempi sono molti, mi vengono in mente Network di Sideney Lumet, Il caso Spotlight di Tom McCarthy. Personalmente trovo attraente sul piano narrativo raccontare in una sceneggiatura i meccanismi che vi sono dietro la divulgazione delle notizie, forse non è un caso che Federico Fellini, sia pure con ironia suggerisse a tutti di fare un anno di giornalismo, quasi come una sorta di servizio di leva per comprendere le dinamiche dei media.
Hai girato un film sulla libertà di stampa al quale ha preso parte anche il premio Nobel Dario Fo, parlacene.
Nel 2015 presentai la sceneggiatura di Sweet Democracy a Donald Ranvaud, il produttore di City of God di Fernando Meirelles, lui accettò di darmi una mano a mettere in piedi il film nonostante io fossi un regista pressoché esordiente e lui un producer con alle spalle varie candidature agli Oscar, fu un felice sodalizio al punto tale che Donald volle anche fare un cameo nel film. Sin da principio la mia idea era costruire un progetto con elementi narrativi di fiction ed altri di documentaristica, quest’ultima parte doveva essere costituita da un’intervista ad un’eccellenza della cultura internazionale che nella propria carriera avesse subito delle censure, pensai subito che Dario Fo sarebbe stato perfetto.
Come sei riuscito a coinvolgere il premio Nobel Dario Fo nel tuo film?
Ho contatto il suo team e dopo aver descritto nei minimi dettagli il progetto ha accettato di prendervi parte. La cosa mi emozionò profondamente ma non mi stupì, in quanto ho sempre pensato che la grandezza di una personalità può essere misurata soltanto in base all’apertura a confrontarsi con nuove sfide. Dario Fo aveva quasi 90 anni quando mi accolse nella sua casa atelier di Milano, ma non dimenticherò mai la sua energica disponibilità a partecipare al film indipendente di un giovane regista. Girammo un’intervista che spaziava dal grado di libertà di stampa in Italia, all’integrazione etnica e religiosa, Dario Fo parlò senza censure del caso Moro ed espresse la sua profonda stima nei confronti di Papa Francesco. Un’esperienza che non dimenticherò mai e che ci ha lasciato una testimonianza destinata ad avere lunga vita nella cultura italiana, io ho avuto soltanto la fortuna di raccoglierla all’interno del mio film Sweet Democracy.
Qual è stato il percorso del film?
La prima americana di Sweet Democracy a New York nell’autunno del 2017 ha cambiato la mia carriera sotto molti aspetti. Fu dopo il riscontro positivo che ottenne il film tra il pubblico americano che decisi di tentare un percorso professionale diverso, ovvero girare film Made in Italy sul piano produttivo, ma dal profilo internazionale. Un percorso che ha generato un lungometraggio con il premio Oscar James Ivory " Dance again with me Heywood!" ed altri progetti attualmente in fase si pre-produzione. Certo, tutto molto bello, c’è un unico traguardo che almeno per ora il film non ha potuto raggiungere, ovvero che la RAI abbia finalmente la possibilità di mostrarlo al pubblico. Sarebbe un evento speciale di grande rilevanza culturale, non solo perché nel film compare l’ultimo premio Nobel per la letteratura italiano, ma anche per il valore di un’opera che affronta un tema così attuale come la libertà di stampa, il caso di Julian Assange dibattuto in questi giorni ne è una conferma.
Oggi saresti ancora disposto a girare un film sulla libertà di stampa in Italia?
Sai il problema non è il tema che affronti in un film, ma come decidi di trattarlo. Ci sono registi italiani che accettano di fare film “fintamente impegnati” ma in realtà non dicono nulla di nuovo rispetto a quanto non sia già noto al pubblico. Io non ho questo tipo di vocazione, i miei modelli di cinema di indagine civile restano Francesco Rosi ed Oliver Stone, Maestri che sono andati oltre la semplice illustrazione cinematografica dei fatti. Tuttavia oggi fare quel tipo di cinema in Italia è molto difficile, ma rispondo alla domanda in maniera affermativa, sì, lo rifarei, anzi lo rifarò sicuramente.