Vanta un calendario concertistico da urlo, mai una sosta o quasi. Divisa fra vari continenti, dice: “Non mi fermo perché tanti paesi si stanno ancora mettendo alla pari con tutte le date spostate, negli ultimi anni, a causa della pandemia”. Ama l’Italia. Di lei, Michele Crisci, uno dei fondatori dei Bluemood, dice: “Sul palco è una macchina da guerra, non sbaglia un colpo. Giù dal palco è dolcissima”. Cucina un’ottima pasta alla norma che, ci confida con un sorriso emanante golosità, mangerebbe “ogni giorno”. Lei è Ka Dyson, da Norfolk (Virginia), chitarrista blues statunitense munita di un curriculum che a recitarlo ad alta voce suona come le formazioni di un all-star game. Da Prince a Cyndi Lauper, da George Clinton a Carlos Santana, per approdare anche in Italia, alla corte di Zucchero “Sugar” Fornaciari. Ed è Zucchero il filo rosso, spesso e luminoso, che lega Kat ai Bluemood (per saperne di più, leggete l’intervista al gruppo, sempre qui su MOW), e quindi al nostro paese. A Milano, in un Blue Note sold-out, il blues di Kat e dei suoi amici italiani ha arroventato anche le anime più timide e composte.
Con il nostro paese hai stretto un legame particolare grazie all’incontro con due Bluemood. Cosa ti ha colpito di loro?
Vedi, negli States le grandi corporations acquistano un palazzo, o magari un palazzetto dello sport, un’arena dove organizzare eventi di vario tipo. Ci danno il loro nome ed è finita lì, l’unico interesse è quello: legare il proprio nome a qualcosa di grande e visibile a tutti. Quando i boss di quelle medesime aziende vogliono fare festa, magari ai piani più alti di un bel grattacielo, chiamano una band, la lasciano suonare; intanto loro si defilano, e si vanno a rintanare in un box esclusivo per ubriacarsi. Quando ho incontrato Michele Crisci e Bob Lonardi, due grandi professionisti che rappresentano una grande azienda – persone che potrebbero comportarsi esattamente come quei tizi di cui ti ho parlato –, sono rimasta molto sorpresa dal fatto che invece mostrassero un grande interesse, assolutamente genuino, per la musica. Ero ammirata. Ma sai chi è l’artefice di incontri come questi?
Chi?
Il blues. Il blues ci connette. Crea legami. Ha unito noi. Unisce me a tutti gli artisti con i quali suono. Cyndi Lauper, ad esempio, in “Memphis blues” (2010) finì per avere ospite nel disco Charlie Musselwhite. Avresti mai pensato che Musselwhite potesse suonare su un disco di Lauper? È la magia del blues che crea certe situazioni.
Da quanto tempo suoni con Zucchero?
Dal 2007. Faccio parte della sua live band, non di quella che si porta in studio per incidere i dischi. Zucchero separa le due fasi: studio band da una parte, live band dall’altra. Lavora con Don Was e Don ha i suoi ragazzi – il suo gruppo – per lo studio.
Mi ha stupito, dal vivo, una vostra versione –rintracciabile su YouTube – di “Stayin’ alive” dei Bee Gees. Molto meno disco, più funk.
Lo ha voluto Zucchero quel pezzo, ma del resto lui seleziona scrupolosamente ogni pezzo che suoniamo. Lo ha scelto perché aveva un forte carattere simbolico. È stato scelto dopo il Covid per dire “siamo ancora qui, siamo vivi”. Un brano liberatorio, in quell’ottica, più carico del solito. Un brano rivolto a tutti: a noi sul palco, e alla gente che ci aveva raggiunto, a frotte, per vederci suonare. L’arrangiamento è di Cory Henry.
Ritieni Zucchero un perfezionista?
Cura ogni dettaglio, non lascia nulla al caso.
Hai suonato con una marea di artisti, questo lascia pensare che tu non veda nel blues più puro l’unica possibile fonte di ispirazione.
Sono cresciuta amando tanta musica diversa. I miei genitori non erano musicisti, ma nella nostra casa c’era sempre musica. Mio padre era un collezionista di dischi (jazz,soprattutto), mia madre amava il gospel e l’opera. Quando mio padre ci faceva ascoltare il jazz, io e i miei fratelli tendevamo a fuggire via per andare ad ascoltare i nostri dischi di Jimi Hendrix o i pezzi della top 40 dei singoli più venduti in quel momento. Venendo da un tale ventaglio di suggestioni, ora so suonare quasi di tutto a seconda del sound che mi viene richiesto. Cyndi (Lauper, nda), ad esempio, cerca un suono molto specifico. Mi chiede di suonare una Fender, non una chitarra qualsiasi. Da me vuole quel suono.
Inevitabile capitolo Prince: la parola “genio”, per lui, è stata utilizzata più volte. Pensando al compositore, all’artista, al cantante, all’autore di canzoni. Era un genio anche il Prince chitarrista?
Assolutamente sì. Non hai idea di quanto tempo dedicasse allo strumento. Una volta, con un tono quasi di sfida, mi chiese: tu chi ascolti? Io gli risposi: probabilmente gente che non conosci. Gli feci il nome di John Scofield e di un tizio fantastico che nessuno davvero conosceva, Jef Lee Johnson. Dopo tre settimane, tornò da me e concluse: li ho ascoltati, non sono male, ma tu sei meglio. Diamine, ascoltavo anche gente come Allan Holdsworth, fui lusingata da quella battuta, ma sono conscia della mia dimensione.
Hai suonato a lungo con la New Power Generation (una delle band di Prince, nda)?
Ho iniziato nel 1996. Le ultime cose che ho fatto con loro risalgono al 2005. Quando Prince andava in studio, in genere non aveva bisogno di me, anche se qualche volta mi chiedeva di registrare qualcosa con lui. Solo altre tre donne hanno suonato nei suoi dischi: Bonnie Raitt, Wendy Melvoin e Andy Allo. Lui suonava di tutto, ma era un generoso: fammi un pezzo con la slide, mi diceva.
Un anno fa circa ho ascoltato Dee Dee Bridgewater dal vivo. Show classico, pieno di sapori diversi, quasi una cronistoria della musica black degli ultimi sessantaanni. A un certo punto, fra una canzone e l’altra, dice che per lei essere stata una musicista femmina in un mondo di musicisti maschi non è stato un gran problema. Faceva parte della gang, era una di loro. Come sei cresciuta tu, invece, in un ambiente ritenuto maschilista e competitivo (soprattutto decadi addietro) come quello della popular music?
Fantastica, Dee Dee Bridgewater. Ma lei era una cantante, una voce unica e irripetibile, una star. Non lavorava per altri. Quando ho iniziato c’erano già diverse musiciste donne, non eravamo merce così rara. Billie Holiday aveva una band tutta femminile, e forse il punto è questo. Se la band era completamente femminile, ok, tutto filava abbastanza liscio. Se invece una donna si andava ad aggiungere a una band maschile o mista, il rischio di sbattere contro una sorta di resistenza era alto. Io sono cresciuta in mezzo agli uomini, so come trattarli, e poi cucino abbastanza bene (ride, nda). A parte gli scherzi, credo che le donne sentano più forte la pressione della competizione. Debbano sempre provare qualcosa in più.
La musica, in senso lato, può essere una forma di salvezza?
La musica che produci ti identifica quanto un’impronta digitale. È unica, solo tu la puoi fare. Quindi sì, se capisci che non puoi essere qualcun altro, se capisci che puoi migliorare solo te stesso, approderai a un luogo molto speciale. In questa industria devi essere coraggioso, ma soprattutto trovarti a tuo agio con il tuo dono, il tuo talento.
Tu sei quella che una volta disse “non posso essere una migliore Paul McCartney, posso essere una migliore me”.
Non credo che troverai mai in giro una migliore me. Siamo tutti diversi: ci vorrebbe meno competizione, meno esasperazione. Più collaborazione. Ognuno vede e sente in modo diverso. La musica è una conversazione in cui tutti dicono liberamente, e al meglio, ciò che pensano. Qualsiasi errore abbia commesso ieri, voglio ancora provare a essere una versione migliore di me domani. Dopo anni che suono con Zucchero, ancora credo che sia questo l’obiettivo: migliorarmi.