L’altro giorno mi sono ritrovato a fischiettare un motivo che, sulle prime, non ho riconosciuto. Non saprei neanche dire se tecnicamente io lo abbia fischiettato o canticchiato, penso più probabilmente la seconda, perché da che andiamo in giro con le mascherine, a breve non saranno più necessarie, almeno all’aperto, questo ha stabilito il Dpcm, anche se a Milano anche quando non erano obbligatorie le portavamo ugualmente tutti, da quando andiamo in giro con le mascherine mi capita abbastanza spesso di canticchiare per strada, sempre che io non sia in mezzo a una folla, complice il fatto che nessuno possa vedermi muovere il labiale, occultato alla vista. Mi sa che mi capita anche di parlare da solo, a volte. Capitava anche prima, e in genere, se vedevo che qualcuno mi fissava, tendevo a simulare una conversazione telefonica, ho i capelli lunghi, vai a capire se ho gli auricolari o meno. Non è che io parli da solo perché sono pazzo, credo, è più un modo per riordinare le idee, mi dico qualcosa a voce alta per ricordarmela, come se fosse parte di una conversazione. Sì, ok, sono pazzo, pazienza.
Comunque, l’altro giorno mi sono ritrovato a fischiettare un motivo che, sulle prime, non ho riconosciuto. Mi ci sono anche fermato per strada, perché non era un motivetto di quelli che rientrano nel paniere dei motivetti che sono solito fischiettare o canticchiare, e se anche, come credo, io lo avessi canticchiato, sarebbe indubbiamente stato un canticchiarlo senza testo, magari in fake english, o in fake italian. Sulle prime non ci ho prestato troppa attenzione, sarà qualcosa che ho sentito in tv, mi sono detto, proseguendo la mia passeggiata. Per la cronaca, ho chiamato il gesto del camminare passeggiata perché non avevo inizialmente voglia di specificare, un’altra volta, che da due anni non mi capita praticamente più di fare passeggiate. In genere ne facevo una di una decina di chilometri al giorno. L’ho raccontato più volte, quelle camminate, chiamiamole così, atte a mantenermi in forma, insieme a una dieta abbastanza rigida dovevano portarmi a perdere una quindicina di chili, e per un po’ di tempo ci sono andato molto vicino, dodici chili andati, erano sempre finalizzate a andare da qualche parte, a un incontro, un evento, una conferenza, no, le conferenze no, le evito da anni, insomma, avevo qualcosa da fare e invece di andarci in auto o coi mezzi, a meno che non fossero davvero in culo ai lupi, ci andavo a piedi, approfittando per camminare. Da due anni non c’è altro posto che casa, e andare per andare mi suonerebbe strano, come se di colpo io fossi diventato un salutista. Uno di quelli che vanno in palestra, fanno pesi, pilates, cose che sfuggono a ogni mia idea di vita adulta. E anche infantile o adolescenziale, per altro. Non potendo quindi andare da qualche parte cammino meno, molto meno, e infatti ho rimesso su peso, pur rimanendo a dieta. Diciamo che non ho ripreso i dodici chili che avevo perso, o se li ho ripresi ne ho rimandato parte indietro con la dieta, ma non cammino poi tanto. La passeggiata di cui sopra non era quindi una passeggiata, ma una camminata, stavo andando in un luogo irrilevante ai fini di questo racconto, e mi sono ritrovato a canticchiare sotto la mascherina, confermo che era canticchiare perché con la mascherina Ffp2 mi è impossibile fischiettare, già fatico a respirare, un motivetto a me sconosciuto. Sono arrivato dove dovevo andare, ho fatto quel che dovevo fare e sono tornato a casa.
Mi sono messo davanti al Pc, che è poi dove passo buona parte delle mie giornate, il resto è diviso tra stare al telefono, quando sto al telefono cammino, sia messo agli atti, a volte i dieci chilometri riesco a farli in casa, ho il contapassi, anche se immagino non sia quel tipo di camminare che influisce sulla forma fisica, o stare davanti al tablet a guardare film o serie Tv, la musica la ascolto mentre scrivo, il tutto fingendo che, contrariamente parlando, quello sia lavoro esattamente come scrivere. Certo, potrei a questo punto dimostrarmi più contemporaneo e anche un po’ meno banale e citare il saggio sulla televisione di David Foster Wallace, la finestra dentro la quale lo scrittore guarda al mondo, la tv, o il tablet, oggi, senza che il mondo guardi noi, ma sta di fatto che se dici a qualcuno che per lavoro guardi serie Tv pensa che non fai un cazzo, lo so bene, lo riconosco negli sguardi, spesso torvi, di chi invece fa un lavoro più facilmente decodificabile dagli altri, specie dai datori di lavoro. Dicevo, mi metto davanti al Pc, pensando a cosa andrò a scrivere, e ecco che il motivetto torna. Quando sono a casa scrivo prevalentemente in sala. Un tempo, da che abitiamo nella casa nuova, tre anni e mezzo fa, scrivevo in studio, ora lo studio è diventato l’ufficio di mia moglie Marina, in smart working da marzo 2020, quindi scrivo in sala. La nostra sala non ha una porta. Nel senso, ha un vano ma non la porta, quindi chi passa, mia moglie, mia suocera o uno dei miei figli, mi vede tranquillamente, lì seduto al PC, quindi evito di canticchiare, perché già è difficile far passare il guardare serie Tv per lavoro, ma far passare anche il mio stare a fissare uno schermo vuoto, un foglio word bianco, per intendersi, canticchiando, credo, sarebbe davvero troppo. Conscio di questo, quindi senza star lì a aprire la bocca, sono uno scrittore, con la sola fantasia so fare davvero di tutto, sono lì’ seduto davanti al Pc, pensando a cosa andrò a scrivere, quando ecco che il motivetto torna. Lo fa in maniera spavalda, certo, nessuno lo ha invitato, e lo fa anche in maniera violenta, perché sfonda direttamente la porta. Il problema è che stavolta lo riconosco, e nel riconoscerlo mi sento anche in colpa, in duplice colpa, come se a errore fosse seguito errore, anzi, se a peccato fosse seguito peccato, il senso di colpa è più discorso legato al cattolicesimo, credo.
Sarà capitato anche a voi… no, fermi tutti, ho scritto “sarà capitato anche a voi”, del tutto intenzionato di proseguire in un certo modo, qualcosa come “sarà capitato anche a voi di ritrovarvi in situazioni che solitamente riterreste sconvenienti, o meglio, disdicevoli, e di esservici trovati senza neanche accorgervi che vi ci stavate infilando, passatemi la spicciola metafora”, invece appena ho scritto “sarà capitato anche a voi”, ho un subconscio che è una vera macchietta, mi è subito venuta in mente la canzone di Ombretta Colli, credo fosse lei, quella che diceva “sarà capitato anche a voi di avere una musica in testa, sentire una specie di orchestra, suonare, suonare, suonare, suonare” salvo poi proseguire con un iconico “Zum, zum, zum, zum, zum”, era Sylvie Vartan, non Ombretta Colli, sono andato a controllare, io Ombretta Colli ogni tanto la vedevo sotto casa mia, dove abitavo prima, lei portava a pisciare il cane lì sotto, e non fosse che è la mamma di uno degli uffici stampa più potenti in Italia, nel settore spettacolo, Dalia Gaberscik della Goigest, gliene avrei anche chiesto ragione, perché mai doveva portare a pisciare il cane sotto casa mia?, vero che abita lì vicino, ma non è che quella piccola vietta dove vivevo prima era un pisciatoio, no?.
Comunque, sarà capitato anche a voi, la canzone, parla appunto di come un motivetto vi entri in testa così, all’improvviso, senza per altro aver noi modo di arginarne l’arrivo. Ma io volevo equiparare questa situazione, che evidentemente risale anche a un pezzo fa, la canzone, sigla di Canzonissima, risale al 1968 e da quella canzone sono stati poi tratti anche due film, i cosiddetti musicarelli, in uno dei quali Zum Zum Zum- La canzone che mi passa per la testa, la canzone si intitola Zum Zum Zum, non sarà capitato anche a voi, così come Volare di Domenico Modugno non si chiama Volare, ma Nel blu dipindo di blu, e Questo piccolo grande amore di Baglioni non si intotola Piccolo grande amore, potrei andare avanti per ore, i film in questione, uno dei quali diretti da Corbucci, aveva Little Tony come protagonista e la canzone in questione, canzone scritta dai maestri Canfora e Amurri, era interpretata da uno dei bambini dello Zecchino d’Oro di Bologna, Popoff, ecco, io volevo equiparare il trovarsi a canticchiare qualcosa che in noi riteniamo irricevibile a una di quelle situazioni, torno al sarà capitato anche a voi da cui ero partito, nelle quali vi trovate a fare qualcosa che razionalmente e moralmente non fareste ma che, l’istinto a volte ha la meglio sulla razionalità, vi ritrovate a fare senza neanche pensarci. Siccome voglio rendere lo sconforto e la vergogna che ho provato, anche perché proprio di sconforto e vergogna sto parlando, e siccome so che siamo in Italia, cioè un paese che, seppur da calendario entrata da poco nel 2022, ancora con una visione bigotta e passatista rimane, ora allestirò un parallelismo che gioca sul sesso, il sesso aiuta sempre a far sentire in colpa le persone. Ecco, mettete che siete lì, col vostro smartphone in mano, magari siete seduti sulla tazza del cesso, avete mangiato troppe fibre e non riuscite a andare di corpo, quindi vi prendete il tempo che vi serve, l’andare di corpo non è poi così distante da quel che razionalmente sareste portati a evocare pensando al motivetto di cui sopra, la citazione non è casuale. Siete lì quando ecco che vi appare davanti una scena che in qualche modo sia ascrivibile alla sessualità, una scena che, fossimo negli anni Ottanta, non ditelo a The Weeknd, ma non siamo più negli anni Ottanta, chiameremmo spinta. Siccome non so se siate donne o uomini, non perché voglia mettere in dubbio la vostra appartenenza di genere, né perché io voglia tirare in ballo il vostro orientamento sessuale facendo gaffes, non lo so proprio perché io sto scrivendo qui, a casa mia, non so chi mi leggerà o ascolterà leggere, figuriamoci se posso sapere di che sesso sia, appunto, non sapendo di che sesso siete, il plurale è dettato da un moto di autostima, non farò chiari riferimenti a una scena sessuale che coinvolga uomini, donne, o altro. Anzi, no, sono un uomo, e per rendere la cosa più credibile, essendo un uomo eterosessuale, vi invito a fare esercizio di immedesimazione in me, e di seguirmi nel discorso. Sono sulla tazza del cesso, lì costipato e in chiara difficoltà. Capito su una immagine o un video che è decisamente spinto. Per mia natura, sono in fondo un moralista, sarei tentato di skippare, andando altrove. Ma la cosa vanificherebbe il mio paragone. Quindi no, resto lì. Il video mostra, vado di fantasia, una ragazza con due tette gigantesche, che si strofina con voluttà, da sola. Sulle prime provo a alzare un fortino di difesa, una cosa improvvisata, come quando i cowboy rovesciavano le diligenze per difendersi dagli attacchi dei banditi (non dico degli indiani perché a me i cowboy sono sempre stati sul culo, che almeno se la vedano tra caucasici). Allora ecco che comincio a pensare, in pratica accendo una sorta di polemica con me stesso, anche se mentalmente, senza cioè parlare da solo, quello lo faccio solo in giro, con la mascherina, non sia mai che qualcuno in casa passa davanti alla porta del bagno, comincio a pensare che le tette sono sopravvalutate. Penso, cioè, che in fondo sono solo due protuberanze munite di capezzoli, è davvero inspiegabile che abbiano una cosa potente attrattiva sugli uomini (in senso generico e patriarcale, sia chiaro, avranno attrattiva anche su donne e non binari, immagino), attrattiva che in genere i corrispettivi maschili non hanno, salvo debite eccezioni. Provo, cioè, non tanto a fare un discorso tipo Free The Nipple, che punta su tutt’altra lettura, quanto piuttosto a provare a dire che tutto quello che riguarda il corpo è in realtà frutto di sovrastrutture, un culo è un culo, idem per tutte le altre parti del corpo, non siamo mica animali, noi? Ma mentre lo dico, o meglio, mentre me lo dico, il video è andato avanti, e magari è arrivato qualcun altro o qualcun’altra. Ecco, è arrivata qualcun’altra, a dimostrazione che le tette esercitano fascinazione anche su donne, anche se, immagino, essendo questo video parte della filiera cosiddetta della pornografia, suppongo che il fatto che la tipa arrivata in un secondo momento stia lì a succhiarle possa semplicemente essere frutto di una interpretazione impeccabile di un copione, copione a occhio sprovvisto di battute. No, è tutto sbagliato. La scena è quella, la scena che vedete sullo smartphone, ma siete in casa, sul divano, mentre i vostri figli piccoli sono a pochi passi da voi, mentre sulla tv scorre un film per i più piccoli, magari di quelli che partono dalla morte di uno dei due genitori del protagonista, su questo Disney è davvero implacabile. Ecco, così potete capire il senso di colpa che intendo evocare. State facendo qualcosa che da cattolici ritenete sbagliato, e lo state sicuramente facendo nel momento sbagliato. E fortuna che non avete l’audio attivato sul cellulare.
Ho invece l’audio attivato nella mia testa, mentre mi ritrovo a canticchiare per la seconda volta nel giro di pochi minuti il motivetto di cui sopra, e non sto certo parlando di Zum Zum Zum. Per essere precisi, funziona così, il motivetto è ancora lì, solo che stavolta ha qualche parola di corredo, l’ho riconosciuto, e nonostante io abbia citato una canzone che conosco praticamente da sempre, Zum Zum Zum è del 1968 e io del 1969, niente, il motivetto è ancora lì, neanche un ever green riesce a cacciarlo via.
A questo punto, ne sto già scrivendo da un numero sufficiente di parole, e anche di minuti, io impegnato a scrivere e voi impegnati a leggere, posso anche dichiararlo, mi sono ritrovato a canticchiare "Insuperabile", brano portato alla settantaduesima edizione del Festival della Canzone Italiana di Sanremo da Rkomi, una insuperabile canzone di merda. Unica soddisfazione, almeno quella, che anche a canticchiarla senza conoscere le parole, in fake italian o con una o due parole originali sostituite da altre parole a caso, ma soprattutto a canticchiarla con la mia voce, che sia filtrata da una Ffp2 o libera, in casa, il risultato è decisamente migliore di quanto Rkomi non ci abbia fatto sentire dall’Ariston e anche nella versione incisa, una insuperabile rottura di palle.