Il fruscio della puntina che si muove sui solchi del vinile. Quante volte abbiamo sentito cantare le lodi di questo particolare rumore di fondo, come fosse qualcosa di più di un nostalgico retaggio di un passato che, in quanto passato, è ovviamente oggi migliore del presente, ma cui ai tempi nessuno si sarebbe sognato di guardare con più benevolenza di quanta si rivolgeva, invece, al passato passato. E dire che si tratta di un falso storico, una ricostruzione fatta ex post cui ci si è attaccati con la disperazione di una Kate Winslet appesa a un pezzo del Titanic in mezzo alle acqua ghiacciate dell’oceano, non si sa neanche bene perché. Qualcosa che ai tempi provavamo a eliminare, vai coi panni di pelle di camoscio, con le spazzoline acquistate a cifre spropositate nei negozi specializzati, noi lì a maneggiare i vinili manco fossero pezzi del legno della croce di Cristo, ma che, sparita di scena con l’avvento del digitale, di colpo ha acquistato lo stesso fascino dei fumatori voraci di certi film in bianco e nero, sempre a proposito di nostalgia canaglia.
E dire che quell’idea lì, il fruscio della puntina, altro non era che il senso di profondità che l’analogico ha in effetti in sé, almeno dall’avvento della stereofonia, dici fruscio e sottintendi il fatto che gli strumenti appaiono tridimensionali e di conseguenza appare tridimensionale il suono, profondo, appunto, in grado di consentire la dinamica, aspetto dell’esecuzione non a caso fondamentale negli spartiti e che comunque determina non solo il suono ma anche l’ascolto.
Quella serie di imperfezioni che col tempo, vedi appunto l’utilizzo del digitale, delle macchine, si è andati perfezionando, ripulendo, al punto che ci si è presto resi conto di come il tutto risultasse asettico, l’innalzamento spropositato dei volumi, ben oltre la soglia della distorsione, biasimevole tentativo di metterci una pezza. A tutti sarà capitato almeno una volta di stare in una stanza affollata con qualcuno che porti un apparecchio acustico, e sarà quindi capitato di sentirlo lamentare del fatto che con quella confusione non riusciva a sentire nulla, tutte le voci che si sommavano in un unico frastuono. Questo fa il digitale, propone suoni tutti su uno stesso piano, senza profondità e quindi presentandoceli come se fossero tutti uno di fianco all’altro. Mentre chi ci parla vicino, in natura, ci arriverà in modo diverso da chi sta parlando all’altro capo di una stanza.
Di qui la necessità, sempre digitale, di aggiungere quella profondità di suoni intervenendo direttamente sulle tracce, ancora gli apparecchi acustici non sembrano esserci arrivati, una profondità aggiunta d’ufficio, si direbbe non stessimo parlando d’arte, come i pittori che volessero aggiungere ombre alle luci per fornire le prospettive ai loro dipinti, una volta che i dipinti erano stati terminati. Un passaggio certo importante, il tentativo almeno tecnicamente riuscito di superare una sorta di bug, che però non è riuscito a rendere la legnosità, usiamo una parola imprecisa per raccontare qualcosa che sull’imprecisione è fondata, della musica suonata in era analogica, il famoso effetto “fruscio della puntina”, al punto che ancora ci sono cultori dei vecchi vinili capaci di spendere fortune per poter entrare in possesso di pezzi che in effetti avevano tutto un altro suono (i vinili che escono ora, in realtà in numeri che un tempo non sarebbero neanche stati conteggiati, figuriamoci se qualcuno si sarebbe preso briga di parlare di “rinascita”, sono una sorta di controsenso, perché sono registrati su un supporto nato per l’analogico ma in digitale, quindi ripropongono un altro falso storico).
Ora, siamo ancora fermi al fascino di una puntina che si appoggia su un vinile polveroso, ma sembra che mai come oggi ci faccia una paura tremenda la possibilità che, anche nella musica, l’intelligenza artificiale, AI per gli amici, possa in qualche modo scombinarci le carte sul tavolo, dando vita a astrusità e aberrazioni come neanche un Mengele qualsiasi in un laboratorio medico. Abbiamo sentito tutti cover improbabili mai avvenute in realtà, Paul McCartney che ci canta Imagine del compagno/rivale John Lennon, come abbiamo visto foto degne di un vero artista che immortalano il Re Carlo III di Inghilterra mentre balla sfrenato alla sua festa di nozze con la Regina Camilla, per non dire di quelle, che però sono state spacciate per giornalismo, di Papa Francesco con un parka alla Sfera Ebbasta. Già in passato abbiamo visto video che sembravano scoop incredibili, come quelli di Renzi che sbrocca passati da Striscia la Notizia, il cosiddetto DeepFake, sorta di miracolo tecnologico che potrebbe dar vita a qualsiasi cosa, tanto l’AI potrebbe regalarci chicche che ci siamo solamente limitati a sognare, duetti inediti, tanto potrebbe portare a mostruosità anche pericolose, al punto che quando è apparso il video del Dalai Lama che si faceva succhiare la lingua da un bambino, fatto che in altra sede avremmo tutti bollato come pedopornografia, per qualche ora si è ventilato fosse appunto un DeepFake, pensa te cosa potremmo vedere in futuro nel por*o. Come dire, dobbiamo ancora star qui a fare i conti coi microfoni che entrano nelle casse spia e danno vita a larsen fastidiosissimi e ci preoccupiamo del momento in cui l’AI manderà a casa l’uomo anche sul fronte artistico, privandoci non solo di chissà quanti posti di lavoro, della libertà di scegliere cosa fare e come fare, ma anche di sognare. Di tentativi di far scrivere musiche e parole di canzoni all’intelligenza artificiale, del resto, son pieni i magazine di mezzo mondo, con risultati a volte disdicevoli, a volte non troppo diversi da quel che in genere passa il convento, leggi alla voce attuale discografia.
Del resto, abbiamo spesso bollato la musica commerciale, come se ne esistesse di non commerciale o come se esistesse musica che non sia anche d’autore, almeno in termini concreti, abbiamo spesso bollato la musica commerciale di essere fatta a tavolino, proprio per sbancare al mercato, che ci dovrebbe mai essere di strano se a comporla fosse una macchina invece che una persona, come se ci dovessimo trovare a rimpiangere i tempi in cui nelle catene di montaggio veniva fatto tutto a mano, faticando e sudando, invece che ricorrere alle macchine per lavori alienanti. Un paradosso che sembra senza possibili risposte, altrimenti non sarebbe appunto un paradosso, ma che proprio nel fascino del fruscio della puntina sul vinile potrebbe avere il suo segreto. La gamba devastata dalla poliomielite di Garrincha che gli permetteva di scartare gli avversari dando vita a finte altrimenti impensabili non sarà mai replicabile dai tanti calciatori iperpalestrati di oggi, robot imbattibili a cui è però il guizzo della genialità a permettere di emergere dall’anonimato. Magari oggi Garrincha non lo farebbero comunque giocare, preferendo la garanzia a vita di chi sembra uscito dalla prossima edizione di Pes, o magari qualcuno proverebbe a imporgli una fisicità palestrata per contrastare l’handicap/dono della gamba colpita dalla poliomielite, dando vita a una situazione al limite dello steampunk, modernità e luddismo che vanno a braccetto, Mozart con gli occhiali a specchio a suonare la colonna sonora, ma a vederla come il Luc Besson de Il quinto elemento credo si possa andar lontani, almeno i sentimenti ancora non li sappiamo replicare aggiungendo profondità a una traccia digitale.