Roberto Vecchioni compie 80 anni. Lui è stata la cassetta in bianco e nero di Al bandolero stanco che avevamo nella vecchia Opel. La tratta verso il mare con le gocce secche che lasciano i loro contorni sui finestrini. Con le parole di un uomo, alla guida, con «quella ruga di ridente nostalgia». È stato convincere il mio liceo a invitarlo soltanto per poterlo vedere dal vivo e fargli autografare il cd di Ipertensione, ovviamente per mio padre. La vera differenza con Fabrizio De André e Francesco Guccini, per esempio, è quel senso della sconfitta che fa parte delle cose, della vita di ogni uomo. «Lasciami, questo sogno disperato d'esser uomo / lasciami, questo orgoglio smisurato / di esser solo un uomo». La discografia di Vecchioni è segnata da questo rivolgersi alle cose in controluce: l’uomo che resta da solo, il figlio più fragile, la vita più dura, il padre, la morte di chi ama, non la morte in generale. Vecchioni, in Le rose blu, chiede a Dio (che esiste, non esiste?) di guarire un figlio in cambio di tutto, delle cose che in un modo o nell’altro gli avrebbe insegnato perché fanno parte di lui, ma non contano più nulla di fronte alla notizia di un male che scava il tuo bambino, la sclerosi multipla:
Io ti darò
tutti i giorni che ho alzato
i pugni al cielo
e ti ho pregato, Signore,
bestemmiandoti perché non ti vedevo,
e ti darò
la dolcezza infinita di mia madre,
di mia madre finita al volo
nel silenzio di un passero che cade,
e ti darò la gioia delle notti
passate con il cuore in gola,
quando riuscivo finalmente
a far ridere e piangere una parola...
Che in fondo è il mondo in cui la letteratura ci insegna a vivere. Dando tutto a modo nostro. Chi, come Rimbaud, «nelle fumerie di Soho», ribaltando «le parole, invertire il senso fino allo sputo / cercando un’altra poesia» e chi «fingendo fogli» come Fernando Pessoa. O coma la sua amica, poetessa liquidata dall’accademia e dall’intellighenzia poetica di oggi, Alda Merini; vivendo «come le cose che dici». Coerenza assoluta nel segno di una fragilità che l’età non addolcisce. Vecchioni ci insegna tutto questo. Ci dice che anche i re non si divertono e si nascondono sotto a un tavolo. E la moglie vuol convincerlo a uscire senza parlare di corone e sfarzi, ma di quanto ci sia più vero nella vita: «Vieni facciamo l'amore come una volta».
La carriera di Roberto Vecchioni è una lunga «lettera a un giovane poeta», scritta da un giovane poeta di fronte a Dio, a un tumore battuto (Ho conosciuto il dolore), a una donna che se ne va: «E non si è soli quando un altro ti ha lasciato, / si è soli se qualcuno non è mai venuto». Ci insegna come si ama di un «piccolo amore», e di quanto possa valere quando le cose finiranno:
E allora penserò
che niente ha avuto senso
a parte questo averti amata
amata in così poco tempo
e che il mondo non vale un tuo sorriso
e nessuna canzone è più grande di un tuo giorno
e che si tenga il resto, me compreso
la viola d'inverno.
Certo, può ferirti. In Due giornate fiorentine parla del tradimento della sua ex moglie, che lo aveva lasciato da solo per andare dall’amante. La reazione è verso l’esterno solo per un attimo: «Pomeriggio da solo in un po' troppa Toscana, / ho pensato “Ma brava”, va beh ho pensato “Puttana!”». Per poi tornare a guardarsi dentro, al senso del dolore: «…poi che io non c'entravo e che eri stata felice». Più di altri Roberto Vecchioni, accanto alla storia, non ha evitato il confronto con la cosiddetta morale della favola. Che ci sia un Dio con il quale incazzarsi per quella «inspiegabile curva della moto di un figlio / che a vent'anni te lo devi già scordare»; o che ci sia di fronte a te una battaglia che sai già di perdere, tentala e trova un senso alla sconfitta. Gli antieroi sono gli esseri umani, e per natura non dovremmo mai tirarci indietro.
Oh certo che può sembrare inutile
una stazione a chi non parte mai
ma i treni che davvero portan via
non han fiori sui sedili
ma da fuori non lo sai
devi entrarci per sapere dove vai.