Tutto poi s’incastra perfettamente. Te ne accorgi dopo, quando lo racconti, con il senno di poi, quando sono buoni tutti, e quando però ogni piccolo aspetto di una storia contribuisce alla magia. Marco Tardelli che fa il cameriere al Ciocco, in Toscana. Dino Zoff che va in ritiro lì con la sua squadra, il Napoli, e ordina un caffè e a portarglielo al tavolo è proprio Tardelli. Anni dopo si ritrovano in Nazionale. E vincono il Mondiale dell’82. Il Mundial. Di destini, incroci, epifanie è fatta la magia, e di questo parla Federico Buffa in "Italia Mundial", il suo nuovo spettacolo. Tra poco sono 40 anni.
Nel luglio 1982 avevo due anni quasi tre, non ricordo niente, ma l’urlo di Tardelli, la leggenda di Paolo Rossi, la sigaretta di Bearzot, l’esultanza di Sandro Pertini, il baffo dello zio Bergomi, la corsa di Spillo Altobelli dopo il gol in finale, il terzo, sono momenti e immagini che ho rivisto talmente tante volte che hanno segnato anche la mia generazione. Quello che c’è dietro - gli aspetti politici, sociali, umani - quello che fa nascere tutto questo, che rende mitologico il percorso verso la vittoria riempie un’ora e mezzo di opera, musicata al piano e agli effetti sonori dal maestro Alessandro Nidi. Eravamo nell’auditorium delle Distillerie Berta, a Fienile, provincia di Asti, territorio di Langhe e Monferrato, e di una grappa morbida, dal colore arancio, l’ultima uscita, la Castelletto dell’Annunziata: Barbera, Nebbiolo e Moscato insieme, invecchiata 5 anni in botti da 100 litri.
Nel 1982 di quanti difensori italiani vi ricordate che superano il centrocampo avversario giocando palla al piede? Così chiede Buffa. Pochi. Di quanti vi ricordate che giocano la palla addirittura nell’area avversaria? Pochissimi. Di quanti che lo fanno di tacco? Uno. Perché uno solo era Gaetano Scirea. La sua è un’altra storia magica. Non dice, Buffa, che Scirea sarebbe morto in un incidente stradale, portandosi dietro la nomea di mito, avanguardista, interprete di un calcio moderno quando moderno non era. Non dice tutto, Buffa, e tutto non può dirlo, perché tutto non si dice mai, se no la magia un po’ si perde, le cose bisogna un po’ saperle no, e se non le sai va bene anche entrare in uno spaccato e godere di quello.
Io la grappa, per esempio, non l’ho mai apprezzata. Per me sa di bar di paese toscano, sa di secchezza, sa di qualcosa che asciuga la bocca e tira la gola, da buttare giù come una bestemmia, non sa di degustazione, di meditazione. Invece il bicchiere qui è da rhum, hai bisogno del tempo per berla e mai ti verrebbe da pensarla come macchia di un caffè. Piuttosto bere la Berta ti ricorda di salotti, di pensieri, di sigari, di club, e non è un caso se con il patron Chicco Berta parliamo di calcio e di vita, perché dai, non facciamo gli ipocriti, se sei uomo, hai una certa età e vuoi stare bene, son poche le cose di cui parlare, aggiungi le donne, le moto, le auto, la cultura, quasi sempre in quest’ordine, poi se lo fai a Mombaruzzo, nel terrazzo di Villa Prato, pensi che in fondo sia tutto ma proprio tutto al proprio posto, tassello che si incastra ad altro tassello, che fa apparire la magia.
Appunto. Bearzot va a vedere la Primavera della Juve. Chiama a sé un attaccante, è più grande degli altri, è squalificato per calcio scommesse, la giustizia italiana l’ha assolto, quella sportiva ancora no, e con la prima squadra non ci può ancora giocare, è Paolo Rossi. Fuori forma, rientrerà solo nel marzo dell’82. Eppure in quel febbraio dell’81 Bearzot già gli dice: Paolo, tu sarai il mio attaccante ai Mondiali. Il capocannoniere del campionato italiano Roberto Pruzzo a casa e lui convocato. La magia mica arriva. Te la crei. Dietro, spesso, c’è qualche trucco. Si chiama perseveranza. Si chiama rischio. Nelle prime tre partite del Mundial Rossi è un dramma. Rossi non segna. Corre poco. Non tocca palla. L’Italia passa il turno per culo. Poi succede qualcosa.
Le pareti dell’auditorium sono dei muri pieni di bottiglie illuminate. Sulle bottiglie la scritta “Solo per Gian”. Gian era il fratello di Chicco Berta, scomparso troppo presto. La prima grappa dopo la sua morte è lì. Solo per Gian. Ai ricordi vanno concessi tempo, ritualità, bisogna dar loro un sapore di sacro, come se fosse la vittoria di un Mundial, che se l’hai visto sei fortunato ma che se non l’hai visto è come se fossi stato comunque lì. Grazie ai ricordi, e a chi te li fa bere. O te li racconta.