Alla Fabbrica del Vapore l’aria sa di metallo e sotto la lingua si percepisce un sapore di alluminio. È quella sinestesia di cui si rimane impregnati dopo la mostra di Andrea Crespi, tra il digitale e l’umano, tra l’illusione e l’autopsia del contemporaneo. La folla si muove lenta, lucida come una superficie d’acciaio. Tutti sembrano sapere dove guardare, pochi davvero vedono. La mostra fortemente voluta da Cupra - che ha saputo cogliere il talento del giovane artista e visionario - si chiama “Artificial Beauty”, e già dal titolo viene il sospetto che la verità non sia niente di più che un filtro rispetto a quel che ad essa soggiace. La luce taglia le opere con la precisione di un algoritmo. Figure femminili, riflessi, glitch, schermi che pulsano come vene luminose. La bellezza non è più un volto, ma una rete, qualcosa che si espande e si moltiplica, satura di pixel.
Andrea Crespi, nato nel 1992 a Varese e formatosi allo Ied di Milano, è uno di quegli artisti che sembrano arrivare dal futuro per raccontarci il presente. Ha iniziato come art director, poi ha deciso che la superficie non bastava più. C’era bisogno di scavare in profondità. Oggi vive e lavora a Milano, e il suo linguaggio è quello della contemporaneità più pura, un misto di materia e software, di scultura e rendering, di sensualità e artificio. Si definisce "phygital", perché il suo mondo non è né del tutto fisico né del tutto virtuale, ma un confine instabile in cui i due poli si attraggono e si deformano. Alla Fabbrica del Vapore ha portato oltre trenta opere che ripercorrono questa ossessione per la soglia, per l’incontro fra carne e codice. Tra queste, "Have no fear of perfection" accoglie il visitatore come un avvertimento, un’invocazione a non temere l’idea stessa di perfezione, ma a metterla in discussione. "The Transition", invece, è una Nike di Samotracia scandita in 3d, trasformata in un corpo di luce che sembra sul punto di evaporare, il classico si dissolve nella macchina.
E poi c’è "Amore e Psiche", forse il cuore della mostra, due figure sospese tra l’umano e il sintetico, un abbraccio in cui la resina imita la pelle e la luce fa da respiro. È una riscrittura del mito in chiave futuristica, in cui l’amore non è più un sentimento, ma un’interfaccia. Crespi racconta l’affettività del presente come una connessione temporanea, un codice binario che imita l’intimità e la consuma. La gente scatta foto, condivide storie, l’arte diventa contenuto e il contenuto diventa arte. È un cortocircuito voluto, una trappola estetica da cui non si esce indenni. Crespi lo sa e sorride, sembra divertirsi a mostrare che la nostra intimità è già un file, la nostra idea di identità un collage di luci. Le sue veneri specchianti, le installazioni della serie "Ex Human", i volti glitchati che si scompongono e si ricompongono a ritmo di loop, sono tutte variazioni sullo stesso tema, la bellezza come perdita, come moltiplicazione infinita. "Guardatevi. Siete bellissimi. Ma siete tutti uguali", sembra dire ogni opera, riflettendo allo stesso tempo lo spettatore e il suo doppio digitale. C’è qualcosa di ipnotico in questa estetica lucida, come se l’umanità si fosse innamorata della propria copia. La bellezza, quella vera, si è spostata nel limbo tra corpo e codice, tra un tocco reale e uno swipe. È un amore tossico, irrefuggibile. Sul fondo della sala, un video interattivo cattura i volti del pubblico, li dissolve, li ricrea, li mescola con frammenti digitali. È la più onesta delle rappresentazioni, la macchina sa tutto, anche ciò che fingiamo di non mostrare. "Artificial Beauty" non parla solo di arte, ma di sopravvivenza. Di quanto, pur sapendo che è tutto artificiale, non si riesca a smettere di guardare. La bellezza non è più salvezza, ma quel che ci consuma lentamente.
