Prendete quanto segue anche come satira, ché comunque l’arte contemporanea spesso con essa confina. Si dice della Biennale di Venezia (dal 20 aprile al 24 novembre ai Giardini e all’Arsenale) che quest’anno, sotto la presidenza di Pietrangelo Buttafuoco, sarà “queer”. È tutto dire “un Buttafuoco queer”. Come fosse una novità e non invece la stessa essenza della, come si dice, “cosa in sé”. E Buttafuoco queer di qui e Buttafuoco queer di là e Buttafuoco queer dentro e Buttafuoco queer fuori (molto spazio sarà dedicato alle installazioni e alle performance all’aperto). Il curatore, Adriano Perosa, apertamente queer, nato a Rio de Janeiro nel 1956, pur, come dice, “possedendo il passaporto più importante del Sud globale”, pur avendo studiato all’università di Sãu Paulo, pur avendo conseguito il master presso la Goldsmith University of London, pur essendo dal 2014 direttore del Masp (Museo de Arte de Sãu Paulo Assis Chateaubriand, carica che ancora ricopre) e adesso curatore appunto della Biennale, si è sempre sentito trattato come uno “straniero del terzo mondo”; ce ne dispiacciamo, gli avrà detto sfiga. Il titolo di questa 60esima Esposizione Internazionale d’Arte si intitola “Stranieri Ovunque – Foreigners Evrywhere”, che pur tratto dai lavori del collettivo parigino (con sede a Palermo) “Claire Fontaine” che a sua volta si rifaceva al nome di un collettivo torinese, sembra proprio il titolo di un libro del generale Roberto Vannacci. La cui foto in kimono alla Manuel Fantoni è tra l’altro una splendida opera di arte contemporanea involontaria (io ho la gigantografia appesa in bagno). E dunque Buttafuoco queer a destra e Buttafuoco queer non a manca. Come se queer non fosse invece l’essenza stessa di ogni fascismo. (Non sto dicendo che Buttafuoco è fascista, sto solo rispondendo a coloro che pensano che Buttafuoco abbia simpatie nostalgiche e si stupiscono per quanto invece sia queer, cioè non lui, la Biennale). Non so, ma a me tutti quegli uomini che sfilavano come mannequin (o mannequeer) di fronte ad altri uomini, maschi innamorati di un altro maschio, la venerazione verso il Dux, venerazione alla quale non si sottraeva di certo, mi fanno sembrare l’epoca fascista come una immensa, faraonica, wandaosirica epoca di omosessualità repressa con il Duce come Drag Queen suprema. Bisognerebbe rileggere bene l’opera di Vitaliano Brancati, la sua trilogia sul gallismo, per cogliere il racconto di una virilità pavoneggiante, sospettosamente eccessiva, troppo “raccontata” per non destare più di un sospetto. E d’altronde Pietrangelo Buttafuoco mai e poi mai ha negato, ha anzi esibito, la sua ammirazione per Giò Stajano (nome completo: Contessa Gioacchina Stajano Starace Briganti di Panico) forse la prima transessuale italiana, nipote del gerarca fascista Alberto Starace. Lo stesso Buttafuoco, criticando Rosario Crocetta di vittimismo omosessuale, ricordava come la Stajano definisse invece l’omosessualità un “dono degli dèi”. E non dimentichiamo come i nazisti, per condannare risolutamente la cosiddetta “arte degenerata” cosa fecero? Distrussero i quadri? Li nascosero nei magazzini? Se li guardavano privatamente nei salotti dei bordelli? Ma no! Ne fecero una mostra itinerante, 650 opere, 112 artisti: Monaco di Baviera, Lipsia, Vienna, Weimar, Salisburgo; le opere esposte insieme a frasi ingiuriose che per assurdo le facevano risaltare.
Stranieri e Queer ovunque, quindi, in questa Biennale di Buttafuoco e Pedrosa, sviluppati in quattro concetti diversi: l’artista queer che, secondo le parole del curatore Pedrosa sul sito della Biennale, “si muove all’interno di diverse sesualità e generi ed è spesso perseguitato o messo al bando”, il queer, insomma, secondo Pedrosa, come frequentatore di bassifondi poco illuminati, costretto a nascondersi (in Sicilia gli omosessuali che non fanno coming out vengono chiamati “ammucciate”, le nascoste, aggettivo che nasconde la critica della comunità omosessuale nei confronti di chi non accetta la sfida di essere apertamente se stess*); poi l’artista outsider, che si trova ai margini del mondo dell’arte, un artista jungeriano diremmo, da Ernst Junger, caro a coloro che si definiscono “sconfitti dalla storia” ma autoconfinatisi “nel bosco”, con sprezzante altezzosità; e non può mancare l’artista folk o “popular”, l’artista del folklore, delle tradizioni, della manualità contadina che bonifica le paludi e le gallerie d’arte: e per finire l’artista “indigeno”, come spiega sempre Pedrosa “spesso trattato come straniero nella propria terra”, quasi ad aggiungere terra martoriata dalla grande distribuzione, che ha abbandonato il glocal per il global, terra che non riconosce più l’intima essenza di se stessa, magari antiatlantista, che non riconosce più la differenza tra “imperium e dominium”, come scrive proprio Pietrangelo Buttafuoco nella prefazione al libro di Claudio Mutti, “A domanda… risponde” pubblicata da Effepi, casa editrice che pubblica anche un libro intitolato “Arte Degenerata”…
Tra i nomi presenti in quest’edizione: il collettivo brasiliano Mahku, il collettivo Maataho di Aotearoa/Nuova Zelanda, Marco Scotini con il suo “Disobedience Archive” (progetto portato avanti dal 2005), architettura della Mostra curata da Juliana Ziebel, Selwyn Wilson e Sandy Adsett (artisti Maori). E ancora due progetti speciali, uno dedicato all’italiana Nedda Guidi, il secondo all’artista brasiliana Beatriz Milhazes. Tutti gli altri li trovate qui.