Alla luce (anzi, la Lux) di ciò che in queste settimane è accaduto al Centro Sperimentale di Cinematografia, le forzate dimissioni del precedente organigramma amichettistico, “di sinistra”, umane ambizioni varie ed eventuali consociate che si reputavano eterne in nome della superiorità morale da “terrazza” di Ettore Scola infine infrante, va subito immaginato, nero su bianco, bianco su nero, un possibile, imperdibile necessario kolossal che restituisca finalmente nella sua ampiezza volto e forme della narrazione su pellicola plebiscitaria al tempo di Giorgia Meloni, presidente e “capatrena” di un nuovo corso politico, istituzionale e insieme espressivo, estetico, filmico. Assodato che, come ciclopicamente affermavano gli agit-prop del Minculpop mussoliniano, "La cinematografia è l'arma più forte". Certamente assai prima che giungessero al mondo dell'espressione estetica individuale le app di Instagram e Tik Tok. La riduzione dell’Opera in semplice e pratico selfie, abitudine appena denunciata nella sua acefala indegnità etica da Concita De Gregorio, ricevendo in cambio disdoro e riprovazione da chi fino a un istante prima ne teneva l'immaginetta sul comodino.
Parole nostre sincere di fronte al dato oggettivo di un cambio di ragioni, stagioni, di indirizzo culturali, accompagnate tuttavia dall’auspicio fiorito di speranza che a dirigerlo, i medesimi stivali da cavallerizzo utilizzati un tempo sui set da Alessandro Blasetti ai piedi, insomma, che sia un maestro di peso a compiere l’Opera nova. E che quest’ultima diventi il contraltare, la risposta a ciò che nell’immaginario delle fotobuste caro ai “comunisti” rispondeva al titolo di “Novecento”, atto primo e atto secondo, dell’indimenticato Bernardo Bertolucci, lui che in luogo d’ogni calzatura da galoppatoio di Piazza di Siena innalzava invece un cappello a falde larghe, apologetico del mancato compromesso storico berlingueriano. Feltro d’autore come segno distintivo e segnaletico di alterità: “… ma ’ndo cazzo sta Bernardo?” “Nun lo vedi? Sta lì, seduto, co’ er cappello suo!”
Dunque gran “rivuglio”, direbbero i sicani, nelle stanze del Centro Sperimentale di Cinematografia, al fondo di via Tuscolana, Roma, quartiere di gladiatori, reziari e mirmilloni, funerali in gloria dei Casamonica, pizzerie d’alta fascia con prenotazione doverosa e negozi di numismatica dove sfavillano le monete d’oro che portano inciso il volto dell’augusta Manlia Scantilla, moglie dell'imperatore Didio Giuliano, il cielo più ampio e immensamente concavo che l’Urbe abbia mai potuto vantare, Cinecittà, ormai appaltata alla “casa” del Grande Fratello Vip, un solo passo poco oltre… Via dunque i dirigenti lì insediati dall’amichettismo segnato da un’estetica “civile” già nei panni di Holly Hobbie e retrogusto sentimentale “Lycia Intima” caro a Francesca Archibugi.
A segnare simbolicamente un ultimo gesto di sensibile decoro prima dell’insediamento barbarico dei nuovi arrivati un numero speciale della rivista “Bianco e nero” opportunamente, amichevolmente consacrato a Nanni Moretti, che, non meno nero su bianco, si è molto speso su Instagram in difesa del personale in uscita, sue le parole di sdegno tuonante che qui riportiamo per storiografica completezza: “La violenza e la rozzezza con cui il governo ha fatto fuori la dirigenza del Centro Sperimentale di Cinematografia. Del resto, questa è la destra italiana, questo il suo ceto politico e giornalistico”. In copertina, figura va da sè il volto sorridente sempre di Moretti che avanza nel magnificat finale di “Il sol dell’avvenire”, marciano tutti verso il sogno di un comunismo circoscrizionale del Primo Municipio, via dei Fori Imperiali, amichetti e amichette già antologizzati nelle sue pellicole, il Colosseo a far da sfondo.
Tornando all’iniziale storia patria littoria, sappiate che il CSC apparve al mondo delle opere pubbliche di regime come dono di Benito Mussolini al figlio Vittorio, futuro comandante d’aeronautica, questi, invece di dilettarsi con “Meccano”, plastici ferroviari “Lima” r “Rivarossi”, o con la giostrina dell’allora “Zoo” di Villa Borghese, che anni dopo ancora dimorava struggente con i suoi cavallucci di legno d’anteguerra, pare volesse bovaristicamente “fare il cinema”, proprio Vittorio Mussolini che in un cinegiornale “Luce” appare al fianco di Hitler ad accogliere a Rastenburg papà Benito appena liberato dal maggiore delle SS Otto Skorzeny dall’Hotel “Campo Imperatore”, alture del Gran Sasso.Tali considerazioni, sebbene in verità possano sembrare schiuma narrativa secondaria, servono a immaginare sia il prossimo destino, appunto, del Centro Sperimentale di Cinematografia che si accompagna al tema delle sovvenzioni erogate un tempo alla “bella gente” cinematografara “di sinistra”, quanto l'imminente realizzazione del primo doveroso kolossal segnato dall’estetica lollobrigidiana, non proprio omaggio alla compianta “Bersagliera”, semmai al cognato di Giorgia, parente comunque prossimo della citata Gina.
Nuovo cinema inferno-purgatorio e paradiso meloniano, sovranista, identitario, nazionale, gagliardamente in blazer ministeriale. In ordine storico spazio- temporale la successione spazia da “telefoni bianchi” a “telefonini bianchi”, pronti ora a virare nuovamente verso l’antracite, “telefonini neri”. O quasi, dunque. Magari destinati a suggerire, fra molto altro, soggetti e sceneggiature prossimi a una nuova campagna per la natalità, orgoglio demografico, il possibile ritorno delle decorazioni da apporre sul petto d'ogni madre prolifica: per ogni nuovo “nutrico” messo al mondo un fiocco viene apposto sul nastrino verde bordato di blu dell’onorificenza, in seguito, accanto ai fanciulli, torneranno magari anche le massaie rurali e i moschettieri del duce, gagliardi nelle uniformi nere, teschio e fioretti incrociati nel fregio che ne adorna il fez, nonostante Vincenzo Talarico, giornalista e insieme caratterista cinematografico (lo ricorderete nel ruolo di avvocato, pettinatura “alla mascagna” e occhio sifolino, in molte commedie postbelliche come “Il vigile” al fianco di Alberto Sordi) nel suo imperdibile volume, “Otto settembre letterati in fuga”, racconti che si dissolsero come neve al sole, gli stessi moschettieri che anni prima avevano, fra molto altro, cura di accompagnare il duce presso una villetta appartata di viale Aurelio Saffi, Monteverde Vecchio, affinché il Supermaschio altrove raccontato da Gadda potesse copiosamente godere in serenità con l’ingorda amante, anche di prebende e potere, Petacci Clara.
Un kolossal, appunto. E qui, ci perdoneranno i nuovi arrivati, il suggerimento, anzi, l’invadenza, affinché il tutto non abbia sentore di paccottiglia nostalgica, tanfo di fureria, di foglio d’ordine, di contrappello, di forcipe, d’antiche annate di “Storia Illustrata”, “Il Borghese” e “Candido”, sarebbe opportuno e cosa giusta che tale kolossal sia interpretato e diretto, metti, da Sacha Baron Cohen, sì, esatto, proprio lui di “Borat” e “Il dittatore”. Magari in accordo con gli sceneggiatori scelti dallo staff di Giorgia e Arianna Meloni, tra le possibili firme per i titoli di testa immaginiamo Pietrangelo Buttafuoco, Marcello Veneziani, il giovane Francesco Giubilei, l'amico Umberto Croppi, e Vittorio Sgarbi che mai manca, e Luca Barbareschi e Hoara Borselli, e Giordano Bruno Guerri con indosso, si spera, la tunica di Gabriele D’Annunzio con apposito foro per fuoriuscire il pene al momento della penetrazione. Un pirotecnico kolossal che tutto includa dell’immaginario meloniano, quindi a cancellare decenni di lagnose opere ispirate ai beauty-case e agli imparaticci edificanti. Giunga insomma il ristoro populista, sinceramente rionale, da ballatoio sovranista, con tutti in blazer ministeriale “Davide Cenci” a ballare infine come Fred Astaire o Lorella Cuccarini, e intanto giù dal cielo le interpellanze parlamentari per ristabilire l'alzabandiera e il Credo in Dio patria e famiglia, già come i nastri delle telescriventi sulla Fifth Avenue che accolsero in un tripudio Italo Balbo dopo l’impresa della trasvolata atlantica.
Solo e sempre sotto gli occhi di Sacha Baron Cohen in uniforme di Console generale della milizia; e intanto gli altri, gli ex residenti del Centro, i "cacciati" dall'edificio di via Tuscolana, a consolarsi, che so, al “Cafè Vert” di piazza Rosolino Pilo, garanzia di appropriata colazione "radical chic", intorno a Moretti, pargoli venuti a lui, e a Noemi, la cantante, che, struggente, intona “Sono solo parole… vorrei stringerti forte e dirti che non è niente, posso solo ripeterti ancora, sono solo parole, sono solo parole, le nostre…”.