In un’estate in cui stanno volando gli stracci e il “tutti contro tutti” prefigurato da Enrico Silvestrin è assordante realtà, manca forse – forte e limpida – la voce dei critici musicali. Non parliamo di quelli delle riviste specializzate, che con il pop o l’Auto-Tune raramente si “sporcano” i polpastrelli, bensì di quelle voci, presenti sui fogli quotidiani, che hanno tradizionalmente cercato di “dirigere il traffico”. Il dissing è, in fondo, una critica che si stacca dalla penna del giornalista per trasformarsi nel twit di una popstar? Samuele Bersani e Paolo Meneguzzi, per farla breve, hanno fatto i critici approfittando del parziale silenzio dei critici di mestiere? E l’Auto-Tune è Satana sotto forma di software o ci possiamo serenamente convivere? La chiacchierata con alcune delle firme più in vista del nostro Paese parte da qui.
Marco Molendini (storico giornalista del Messaggero, scrittore, conduttore radiofonico per Radio 1 e Radio 2, nonché esperto di jazz) lamenta, semplicemente, un’overdose di opinioni: “Quelle di Bersani, Meneguzzi, J-Ax sono opinioni. Ormai viviamo immersi, da capo a piedi, nelle opinioni. I social, i talk… Si dibatte su tutto e tutti. Sempre. Oggi più che mai ci sarebbe bisogno, soprattutto, di opinioni autorevoli, come accadeva quando la critica aveva un peso maggiore. Ma i redattori dei quotidiani, chissà perché, non vedono di buon occhio la reale funzione del critico, la disincentivano”. “In questi giorni – prosegue –, ho seguito la querelle che ha visto protagonista Bersani, persona squisita. Capisco il suo sfogo. È frustrante vedere come sia facile oggi calcare un palco pur non avendo le qualità per farlo. In Italia stiamo assistendo a una bolla che si sta gonfiando a dismisura. Sembra che ogni settimana esca fuori un nuovo fenomeno capace di fare gli stadi. Ma è una bolla destinata a scoppiare presto. Inevitabilmente”.
Di parere in parte diverso è Andrea Laffranchi, classe 1969, critico del Corriere della Sera e docente dell’Università IULM di Milano: “In realtà, dietro i dissing non credo ci sia necessariamente un deficit della critica istituzionale. Pensiamo alle critiche ricevute l’anno scorso dal Love Mi. In quell’occasione i giornali ne hanno parlato parecchio di Auto-Tune. Nelle interviste agli artisti, inoltre, esce spesso il tema dei numeri, della musica pop letta
costantemente con i numeri dello streaming o dei follower. Credo che su questi punti la critica sia presente, il problema è che i giornali si leggono meno di prima e allora “sembra” che la critica sia assente. Per quanto riguarda la musica ci si rivolge molto meno di prima all’informazione. Le ragioni sono tante. Ce n’è anche una, economica, che non va sottovalutata. Un tempo, prima di rischiare di spendere 20mila lire o 20 euro per un disco, uno cercava di capire cosa ne pensasse il suo critico di riferimento, di quel disco. Oggi, attraverso lo streaming, ascoltare un album “in più” non comporta alcun investimento aggiuntivo da parte dell’ascoltatore. Il mio “costo marginale” per ascoltare un disco in più è pari a zero”. La critica in cosa può trovare un nuovo senso? Su questo Laffranchi la pensa come diversi di noi qui a MOW: “La recensione può esistere ancora sulle riviste di settore, ma oggi l’opportunità della critica è diversa: ossia quella di provare ad analizzare un fenomeno. Raccontare qualcosa che alla gente sfugge. Siamo noi che dobbiamo unire puntini talvolta lontani, individuare una nuova mappa, nuovi percorsi. Un esempio: l’ultima data milanese di The Weeknd, che ci ha lasciato tutti un po’ freddi. Mi è sembrato più un investimento nella comunicazione che un concerto (per come normalmente siamo abituati a pensare i concerti). Dobbiamo provare a misurarci con i cambiamenti, non abbiamo alternativa. Sull’opinione singola non possiamo più competere con i social. I social, su questo, ci hanno fatto fuori. Una volta la critica aveva il potere di modificare il corso di una carriera, oggi no. Anche il valore della “scoperta”, per un giornalista, si è ridimensionato. Un esempio che sfrutto anche ai corsi universitari: quando i Beatles arrivarono per la prima volta in Italia, nel 1965 (quindi esistevano già da 3 anni), i giornalisti erano assolutamente impreparati. Facevano gli arroganti, gli ironici. Ai Beatles – dico, ai Beatles! – sono state fatte domande incredibili. Cosa succederebbe se perdeste i capelli? Il titolo era: “La calata delle parrucchette”. E oggi invece? “Quando l’anno scorso è uscito il primo singolo di Anna, che poi è andato al numero uno in classifica, io scrivevo che Anna, fino a quattro settimane prima, non aveva un contratto discografico, non esisteva. Come fai a dire ai lettori, oggi, “ho scoperto qualcosa”, se in quattro settimane uno passa dal nulla al numero uno?”.
Sempre Laffranchi, però, sulla trap non si nasconde: “La trap ha segnato una cesura profonda con tutto ciò che c’era prima. Mentre prima, in un talent, un ragazzino esordiente poteva esibirsi con un pezzo di De Gregori, Zucchero, dei Negramaro, di chi vuoi tu, oggi questa cosa non esiste più. Oggi un artista nuovo non si fa più produrre dal produttore famoso ed esperto, fa il disco con la sua crew di sempre. È crollato il ponte col passato, non c’è dialogo. Che senso avrebbe, oggi, un duetto fra un big del passato e un trapper? Fino a qualche anno fa un duetto big-giovane poteva funzionare per entrambi, oggi un ipotetico duetto Jovanotti-Rkomi forse non tornerebbe utile a nessuno dei due”.
Non poteva mancare, all’interno di questo piccolo mosaico di voci autorevoli, il decano dei critici di musica pop sui fogli quotidiani: Mario Luzzato Fegiz (inviato del Corsera, saggista, memoria storica). “La storia della critica della musica leggera, in Italia, è particolare. Mentre in Inghilterra la critica specializzata settimanale aveva molto più potere, da noi erano i quotidiani a muovere le cose. Quella delle risse, in particolare, non è una novità. Mi porta alla memoria un vecchio episodio che vide protagonisti Adriano Celentano e Don Backy. Le risse di questa estate le ho seguite, ma ormai non mi appassionano più. Tutta la musica ha una propria dignità. A patto che però si rispetti il contesto. Fare “Romagna mia” alla Scala non ha senso. Come proporre la “Sinfonia n. 9” di Beethoven alla sagra della salsiccia. Rispettiamo il contesto e saremo tutti più sereni. Ne parlo con cognizione di causa: ho dovuto lottare, al Corriere, affinché Gigi D’Alessio fosse trattato col giusto rispetto”. E chiude con una battuta: “Gli americani del Los Angeles Times mi insegnarono un buon costume: il giornalista che scriveva la recensione non era quello che avrebbe intervistato l’artista. Una regola che garantiva una certa onestà e libertà nei giudizi. Quando ci vai a cena, con l’artista, diventa dura parlare male del suo nuovo disco”.
Chiude la carrellata, ma non certo per ragioni di valore, con l’ultima voce autorevole che abbiamo raggiunto: Andrea Spinelli. Collaboratore di diversi quotidiani (Il Mattino, le testate di Quotidiano Nazionale) e presidente, da un paio di decenni circa, della sala stampa del Festival di Sanremo, Spinelli è netto: “La moda del dissing è una questione di marketing, non vedo altro. È un modo per contare il proprio pubblico attraverso i like. Ma tutta la comunicazione, oggi, è all’insegna della frammentazione. Ed è svilente. È vero che Paolo Meneguzzi era più popolare ieri di oggi, ma oggi non merita di tornare in auge solo grazie a una polemica estiva. Ci vorrebbe altro, a beneficio di tutti. Non serve il dito medio di Ultimo ai giornalisti, per citare un altro episodio mortificante. Una “dimostrazione di forza” per cosa? Per reiterare ancora una polemica, nata da molto lontano? Sono solo strategie per fidelizzare il proprio pubblico, all’insegna di un individualismo brutale e barbaro”. Sul ruolo della critica il pensiero di Spinelli converge, in buona parte, con quello di Laffranchi: “Oggi tutti, attraverso i social, sparano opinioni. E questo è legittimo, per carità. Però ogni giudizio non dovrebbe avere pari dignità, questo no. In tutto questo i giornali, per mantenersi in vita, hanno moltiplicato le iniziative e diverse di queste iniziative vedono protagonisti artisti che poi non osano criticare. Così anche i quotidiani vengono risucchiati da questo flusso costante di opinioni e informazioni in cui vale tutto e il contrario di tutto. Lasciare un segno è diventato complicato”. Se quindi attaccare qualcuno è soprattutto una mossa di marketing, il messaggio in sé non rischia di perdersi? Addio dibattito… “La forma ha vinto rispetto a ogni contenuto. Il contenuto, via social, si perde”. Finiamo con l’Auto-Tune: “Se sei soprattutto un personaggio, va benissimo. Se sei un cantante devi sapere cantare, c’è poco da fare. E in questo mondo di “numeri, numeri, numeri”, il tanto vituperato Festival di Sanremo mette ancora al centro la canzone. Ricordate la scorsa edizione? Ariete aveva una buona canzone, ma la sua esibizione fu quasi disastrosa. Il pubblico non l’ha perdonata, in quel contesto. Tananai dopo aver stonato si è preso un insegnante di canto, mostrando intelligenza. Lui, evidentemente, vuole provare a non essere solo un personaggio. Poi siamo sinceri e non fermiamoci alla trap! Sapeste quanti stimati big usano le sequenze dal vivo”.