Andando a vedere il remake de La fiera delle illusioni (Nightmare Alley) mi sono chiesta, ancora una volta, perché molti registi, anche televisivi (vedi Ryan Murphy), subiscano la fascinazione del circo o di Pinocchio. Se nel caso dell’opera di Carlo Collodi siamo davanti a un capolavoro, l’ambiente circense mi ha sempre ricordato la realizzazione concreta di un piccolo angolo di inferno sul nostro pianeta. Nessuno meglio di Tod Browning con la sua magnum opus Freaks ha descritto l’ambiente disfunzionale del circo che di divertente e scintillante ha solo la facciata; forse ci si avvicinò Victor Sjöström con il suo L’uomo che prende gli schiaffi ma, fortunatamente, se l’inizio del nuovo film di Guillermo del Toro lasciava presagire l’ennesima storia su quanto è crudele l’uomo con le altre specie o la natura, la storia vira subito su quello che, a conti fatti, è un ottimo noir e per nulla fuori tempo massimo.
Anche in questo film l’uomo è crudele, ma lo sono tutti, indistintamente gli uni contro gli altri (sullo sfondo c’è sempre la Seconda guerra mondiale) e questo fa de La fiera delle illusioni uno dei lavori più compiuti e senza speranza del regista messicano.
Stanton Carlisle (Bradley Cooper) è un truffatore ambizioso e narcisista che, approdando in un circo come tanti altri nel suo paese, si porta appresso un passato oscuro definito da colpe, traumi e rimpianti. Il primo incontro avviene col ‘geek’ ossia il fenomeno da presentare a un pubblico impressionabile come un essere strano e pericoloso. Di solito, come ammesso dal padrone del circo Clem (Willem Defoe), il fenomeno è un reduce di guerra (dipendente da oppio o alcol) o un reietto qualsiasi, come tanti che vivevano a quei tempi sui treni come vagabondi del Dharma.
Spaventato dal geek di turno (d’altra parte con un lancio di dadi i ruoli potrebbero essere invertiti) ma affascinato dall’arte della divinazione dell’affabile Zeena (Toni Colette) e dalla capacità di mentalista del marito alcolista Pete (David Strathairn), Stan vede in questi due personaggi e nella bellezza di Molly (Rooney Mara), un mezzo per la scalata al successo tipica della tradizione americana. Il sogno americano è da una parte il motivo che ha spinto generazioni a spendere la propria energia ‘nel paese della sedia elettrica’, dall’altra il sogno americano è solo un sogno e se ci si indugia troppo può diventare un incubo. Stanton, appropriatosi dei segreti di Pete, abbandona il circo con Molly e nel giro di soli due anni diventa un mentalista di successo con la compagna nelle vesti di assistente. Come in ogni buon noir che si rispetti c’è una dark lady e qui la ritroviamo nella psichiatra Lilith (una Cate Blanchett che rispetta la natura del nome che porta): inizialmente intenzionata a smascherare i trucchi dell’illusionista Stan, Lilith diventa il contraltare perfetto in un rapporto che diventa un gioco al massacro nel mettere a nudo emotivamente l’altro.
A differenza di Tyrone Power, Bradley Cooper incarna (anche esteticamente) l’uomo affascinante, il truffatore traumatizzato e a tratti ingenuo, il ragazzo ‘white trash’ che chiede solo la possibilità di riscattarsi, di un mondo che riconosca le sue capacità o, per dirla con Pete: ‘Le persone non vedono l’ora di essere viste (…) le persone cercano di disperatamente di dirti chi sono’. Nel film del ‘47 di Edmund Goulding (che consiglio di recuperare) Stanton non ha tutte le sfaccettature psicologiche che gli donano in fase di scrittura Del Toro e Kim Morgan (co-sceneggiatrice). Così scopriamo la figura assente della madre e quella necessaria e conflittuale col padre, e il rapporto ambiguo con le figure ‘paterne’ che incontrerà Stan. La fotografia di Dan Laustsen e le scenografie di Tamara Deverell incarnano l’estetica del regista e, al contempo, modernizzano il noir nell’epoca di Tumblr e dell’estrapolazione dei frame (purtroppo solo per un breve periodo, e non da noi, è stato possibile vedere il film nella versione in b/n). Il tutto serve allo scopo di addobbare l’inferno e la spirale di entropia, tensione e ansia che viviamo al fianco di Stanton per più di due ore e mezza che passano veloci come una notte in preda agli incubi.
Basato sul romanzo del 1946 di William Lyndsay Gresham, La fiera delle illusioni è l’amarissima parabola di ogni self-.made man che si rispetti. Il finale scelto dal regista de La forma dell’acqua differisce di molto dalla prima versione cinematografica; è più esistenzialista, ma nel suo essere teso verso l’apocalisse incarna appieno l’epoca buia in cui viviamo. D’altronde gli Stati Uniti si fondano sul delitto e il successivo (non per tutti) castigo: sull’ascesa e la caduta, ma in particolare modo su quello che accade dopo la caduta. Ogni essere umano non è altro che un mezzo, per altri avventurieri e truffatori, verso il palazzo di smeraldo e l’imperativo tossico della ricerca della felicità a ogni costo.