“Rivendico il diritto alla cazzata” così Ugo Tognazzi si difendeva dalle critiche quando finse di essere, diffondendo una fake news, il capo delle Brigate Rosse. Il suo motto adottato da noi “che prendiamo la vita come un gioco” può accostarsi bene anche a Monica Vitti. Non ci si crede a leggere della sua morte, appena pochi mesi fa, il 3 novembre, aveva compiuto 90 anni. Si spera quasi sia uno scherzo di cattivo gusto, come non se ne fanno più, la notizia della sua morte. La sua assenza era ingombrante: i suoi successi l’avevano resa, nonostante il ritiro da molti anni dalle scene, pervasiva nella nostra vita quotidiana tanto è stata importante nella cinematografia mondiale. La dea dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni, la regista, la sceneggiatrice, la doppiatrice, la donna dalla nuca interessante (così aveva detto il regista di Deserto Rosso). Monica Vitti si distaccava dalle eroine coeve della nouvelle vague, dalle bellezze pure di Claudia Cardinale e Virna Lisi o, ancora, dall’aspetto curvy (com’era inteso all’epoca) di Sophia Loren; non veniva considerata bella, non in modo classico, eppure oggi, se chiedete in giro molti vi diranno che è stata tra le più belle e non solo del cinema nostrano. La bambina povera dalle sette sottane (perché in casa sua non c’era riscaldamento), la ragazzina che intratteneva i fratelli per distrarli da una vita difficile, è stata l’antesignana di quelle figure femminile che oggi amiamo tanto, benché rimangano nel 2022, ancora rare.
Monica Vitti è sempre stata una alienata che lavorava da Dio con altri alienati (Antonioni su tutti), ha imposto una figura in termini di carattere e caratterizzazioni che non aveva eguali, che non continuavano la tradizione della femme fatale o della svampita (à la Marilyn Monroe degli esordi). Era strana, nel senso migliore del termine, aveva un modo di fare buffo, era fuori sincrono col resto del mondo che richiedeva un certo modo di essere; lei questa sua stranezza l’ha portata in ogni ruolo soprattutto sdoganandosi da quella che era stata la prima parte della sua carriera.
E con ‘La ragazza con la pistola’ che Monica si distacca da una impostazione più drammatica per sondare lo spettro enorme dei grigi del tragicomico; così, dall’opera di Mario Monicelli in poi, è salita su una giostra di personaggi diversi quanto identici in una rassegnazione comica di fronte all’assurdità dell’esistenza: Amore mio aiutami, Dramma della Gelosia, Noi Donne siamo fatte così, Polvere di Stelle, Teresa la ladra, L’anatra all’arancia, Io so che tu sai che io so, in una filmografia bulimica e costellata da collaborazioni importanti fuori casa, basti pensare a Il fantasma della libertà (Luis Buñuel).
Monica era la diva democratica, sembrava alla portata di tutti, comprensibile, generosa col suo talento e il racconto della sua vita che tra una risata strappata e l’altra, lasciava intendere l’inevitabile sconfitta per ogni essere umano. Eppure, la sua vita come i suoi pensieri rimangono un mistero, quasi ci fosse un segreto insondabile nello sguardo di una donna che perdeva tutto, aveva paura degli aerei e diceva che le facevano male i capelli perché per dirla con lei "è una parte del corpo, ha diritto al dolore". La protagonista de L’eclisse è ancora così amata perché per quanto ci sembri di averla conosciuta rimane una domanda senza risposta che, forse, riposa in una infanzia poverissima, in una carriera piena di successi quanto sofferta per quegli stessi successi, nell’essere diventata una grande tra i grandi e giocare nello stesso campionato coi giganti dell’epoca rivendicando la loro stessa forza, gli errori, i dubbi, le ansie, i comportamenti stupidi quanto infantili perché siamo persone prima di tutto, e tutto questo non deve essere appannaggio solo dell’universo maschile. Oggi a noi fanno male i capelli, la pelle e anche il cuore ripensando alla sua voce roca. Attraverso i suoi film, però, mi sento di dire: "Ci vediamo domani e dopodomani. E il giorno dopo e l’altro ancora. E quello dopo…".