Era l’epoca in cui Neal Cassady per due sigarette di marijuana scontava una detenzione di cinque anni, ciononostante qualcosa cambiava in America, e non era solo l’aspetto di New York, ma tra le poesie dei beatnik e la musica spettrale di Miles Davis, tutti i vagabondi del Dharma sentivano la possibilità di un mondo nuovo e forse pure buono. Arthur Miller sul finire degli anni ‘50 scriveva che il canto delle sirene della libertà risuonava nei cuori segreti degli individui, e non un caso che il successo di West Side Story nasca in quegli anni dal libretto di Arthur Laurents, dalla penna di Stephen Sondheim e dalle musiche eterne di Leonard Bernstein. Da una parte abbiamo i Jets, ragazzi bianchi (perlopiù polacchi ma anche italiani), prima generazione di americani e, molto probabilmente, i precursori della categoria white trash; dall’altra gli Sharks, immigrati dal Porto Rico (da tempo paradosso della politica americana). Se Steven Spielberg avesse portato nei cinema il famoso musical, già trasposto al cinema da Robert Wise e Jerome Robbins nel ‘61, durante il mandato di Donald Trump, complice lo Zeitgeist, forse il suo film non sarebbe stato un flop al box office.
La storia, si sa, è quella di Romeo e Giulietta trasposta negli anni della guerra fredda e della gentrificazione di alcuni quartieri di New York, in questo caso l’Upper West Side dove sarebbe sorto il Lincoln Center. Sembra quasi una malattia ereditaria, è impossibile che qualcosa rimanga uguale, che abbia pure l’ardire di avere una storia nello Stato di New York. Ma se nell’isola di Manhattan la Storia ha ricevuto lo sfratto, le vite e le storie delle persone che l’abitano esistono, precariamente ma esistono. Tony (Ansel Elgort) lavora nella drogheria di Valentina (Rita Moreno) dopo avere scontato una pena per avere quasi ucciso un ragazzo di una band rivale. È lui che ha fondato i Jets insieme all’amico Riff (Mike Faist) che non sembra rassegnarsi al fatto che la vita, almeno per lui e i suoi amici, possa essere altro che non violenza e degradazione tra le macerie dei cantieri che invadono la città. Tony ha rinnegato quel mondo fatto di entropia e precarietà, per cui Riff trova nuova linfa nello sfidare quotidianamente i portoricani Sharks. Maria (Rachel Zagler, una vera rivelazione) sorella di Bernardo (un impeccabile David Alzavarez) pugile e capo degli Sharks, è una ragazzina di diciotto anni che si arrangia lavorando in una ditta di pulizie con altre portoricane. Maria come Tony non si domanda cosa significa essere americani, entrambi si realizzano nell’amore che provano l’uno per l’altro; differentemente Anita (Ariana DeBose), che nella sua relazione con Bernardo, rappresenta quell’accumulo di energia che dal Porto Rico (e non solo) è andato a disperdersi “nel paese della sedia elettrica”. Quanto Anita canta America, c’è tutta la forza che contraddistingue lo spirito americano, soprattutto newyorchese, che tende sempre in avanti, al futuro, passando sopra tutto e tutti.
Le luci, il movimento nei balli che diventano armi da usare contro il nemico, i colori, il mondo quasi surreale che si sviluppa nei prom, organizzati dalle scuole americane, è lo sfondo perfetto di un’epoca che si stava risvegliando da uno strano sogno. È lì il vero teatro di battaglia per una delle scene più belle di West Side Story che coglie lo spirito di un popolo che fa della palestra il luogo deputato alla creazione del futuro, disastroso o meno che sia. Una palestra che è anche il posto dove Tony e Maria s’incontrano e si amano, nonostante quell’amore possa avere la breve durata di una canzone. ‘Siam così perduti, così nudi e così soli in America’ Tony e Maria sono veri americani, con quell’angoscia esistenziale mai confessata del tutto, quasi protagonisti a loro insaputa di una canzone di Simon & Garfunkel; entrambi, senza esserne coscienti, cercano tra le ceneri attorno a loro una scintilla che posso ricostruire tutto. Se Maria è l’amore assoluto che tutto comprende e perdona, Tony è colui condannato a ripetere, forse, gli stessi errori. È qui che West Side Story perde di forza: le panoramiche meravigliose di Spielberg, la scrittura di Tony Kushner, la fotografia di Janusz Kamiński, la caratterizzazione perfetta di Anita e Bernardo, i ragazzi perduti che vivono tra i Jets, non bastano a fare della versione di Spielberg un capolavoro. Forse l’elemento disturbante e dissonante è proprio il Tony di Ansel Elgort che pare uscire da un pessimo episodio di Glee e non dalle strade piene di disperati, quegli stessi disperati mai realmente integrati nel paese, con padri alcolizzati e madri tossicodipendenti. Questo vivere perennemente in una zona liminale tra l’essere unostraniero e non esserlo ha dato vita ad alcune grandi opere: da Pastorale americana a The Basketball Diaries passando per Un albero cresce a Brooklyn e West Side Story. Non c’è nessuna sfumatura in Tony, un’ombra di sfaccettatura, nessuna battuta tratteggia il suo percorso riuscito (?) di redenzione, del suo passato,se non quella battuta, buttata lì nella metro con Maria in un appuntamento degno di A Perfect Day di Lou Reed: “I miei amici sono fatti di problemi”. Ecco perché quando Riff e Bernardo muoiono il film crolla, perde di senso e ci si avvicina stancamente all’epilogo amarissimo.
“Meravigliosamente distaccato da tutto” è così che ci si sente dopo che avviene la tragedia cantata, e neanche Rita Moreno - già Anita nella versione anni ’60 - cuore e fil rouge che collega gli sfortunati personaggi, riesce a trasmettere una emozione sufficiente al pubblico. Il merito di West Side Story - e di Spielberg nel suo eterno dinamismo (qui al suo primo musical) - è il messaggio universale e trasversale della storia: l’amore è la risposta, ma qui, dove sta il pubblico, il segnale è parecchio debole e la risposta non arriva abbastanza forte.