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Matrix Resurrections
è un enorme dito medio
ai nostalgici della saga

  • di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

6 gennaio 2022

Matrix Resurrections è un enorme dito medio ai nostalgici della saga
Anche se l’ultimo lavoro di Lana Watchowski è già diventato il film manifesto dei no vax, la regista ci impedisce di volare - esattamente come fa con Neo - ricordandoci che al di là delle ispirazioni dal mondo degli anime, dalla cultura cyberpunk, dalla musica nu metal, dalle letture di Philip K. Dick, dalla sociologia di Jean Baudrillard, delle rivendicazioni transgender and so on, Matrix è sempre stata una semplicissima storia d’amore e questo nuovo capitolo lo rende lapalissiano anche a chi ha sempre avuto dei retropensieri in merito. Ancor di più oggi in un’epoca di follia collettiva

di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

“È una ben povera memoria quella che funziona solo all'indietro” disse Lewis Carroll. Le sorelle Wachowski sono state le creatrici della visione ‘bullet time’, delle scomposizione dell’immagine dalle immagini, della fluidità tra un medium e l’altro rendendo la saga di Matrix un’opera trans-mediale a tutti gli effetti. Col polso stretto dalla Warner Bros. Lana Wachowski, qui solitaria nella missione di fare un seguito (?) del brand di successo a distanza di 22 anni dal primo capitolo, fa con Matrix Resurrections quello che riesce meglio ai figli della generazione X - tranne quelli imbolsiti e imborghesiti -: alza un grosso dito medio non solo ai produttori ma a ogni nostalgico della cultura del passato, a chi rimpiange per proprietà transitiva un’epoca mai vissuta.

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È innegabile che per quanto slegato dalla trilogia, Matrix Resurrections richieda una conoscenza pregressa della stessa e in questo Lana Wachowski si riconferma una grande insegnante nel suo essere non solo postmoderna, ma di avere insegnato - a suo tempo - un modo nuovo di fare cinema che chiede al suo pubblico una collaborazione per creare un senso tra un frame e l’altro. Per dirla con Henry Jenkins che analizzò il fenomeno Matrix, questo mind-game film è, tra le tante cose, un attivatore culturale. Non è un caso che il leitmotiv del nuovo film sia il concetto stesso déjà vu - molto più di binary -; se nel primo film il déjà vu era un errore del sistema, di Matrix, qui l’errore è da imputare solo alla cultura degli anni in cui viviamo e che la Warner, come tutte le grandi case di produzione, vorrebbe imporre - e già lo ha fatto - come modus operandi da applicare a ogni prodotto culturale. Anche Matrix Resurrections si conferma molto più interessante per la sua natura di prodotto culturale e trans-mediale che per il soggetto in sé. A livello puramente filmico in Resurrections ritroviamo Thomas Anderson (Keanu Reeves) come programmatore di videogiochi in terapia dopo un tentato suicidio. Thomas Anderson come uomo di mezza età, quasi pavido, che tenta di ancorarsi con ogni modo alla realtà convincendosi che Matrix è stato solamente il suo gioco di maggior successo. Trinity (Carrie-Anne Moss) ora è Tiffany, una soccer mom affascinante con cui T.A. scambia due parole nel locale frequentato dai due, Simulatte.  È un mondo sottotono quella di Thomas Anderson, la San Francisco di Resurrections sembra dipinta ‘da un artista stanco’ e ripassata coi filtri Instagram, il fantasma di un ricordo, un semplice déjà vu che non apporta nulla di nuovo o migliore al passato, dove per risvegliare un Neo poco convinto che non ci crede più, ci vuole uno sforzo notevole da parte di nuovi e vecchi personaggi, di cui Bugs (Jessica Henwick) è l’unica realmente ben scritta e sembra uscire dall’universo espanso di Animatrix. Neo non vuole credere in Matrix e forse questa è una delle cose più belle di questo film, nella sua ritrosia e nel suo volersi sottrarre c’è qualcosa di terribilmente umano e commovente laddove nei vecchi film c’era una perenne, immediata e a tratti insopportabile sospensione di incredulità.

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Benché in questi giorni l’ultimo lavoro di Lana Watchowski è già diventato il film manifesto dei no vax, la regista ci impedisce di volare - esattamente come fa con Neo - ricordandoci che al di là delle ispirazioni dal mondo degli anime (Ghost in the Shell), dalla cultura cyberpunk, dalla musica nu metal, dalle letture di Philip K. Dick, dalla sociologia di Jean Baudrillard, delle rivendicazioni transgender and so on, Matrix è sempre stata una semplicissima storia d’amore e questo nuovo capitolo lo rende lapalissiano anche a chi vuole continuare a sovra-interpretare la propria stessa ombra, cosa assolutamente in voga in quest’epoca di follia. Per farcelo capire, Lana Wachowski priva Matrix 4 di ogni ‘spacconeria’, di ogni combattimento entusiasmante che ha fatto della saga (oltre alle varie ispirazioni culturali eterogenee) l’antesignano non solo dei prodotti che richiedono l’intelligenza collettiva (esisterebbe Reddit senza Matrix?) ma un modo di fare cinema d’azione che ha influenzato pesantemente tutti gli Anni Zero del nuovo millennio. Più che combattimenti troviamo inseguimenti e neanche troppo memorabili e non perché siano girati o montati male, semplicemente perché non c’è la volontà di farlo, come non c’è la volontà della regista di piegarsi del tutto alla Warner a cui dedica una certa acredine, soprattutto nella bella scena dello sviluppo del nuovo videogioco su Matrix che Thomas Anderson deve portare avanti.

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Se nella trilogia le sorelle Wachowski ci davano il benvenuto nel ‘deserto del reale’, in Matrix 4 Lana squarcia il velo di Maya, lancia una granata nella tana del Bianconiglio, attraversa lo specchio e colonizza brutalmente ciò che ci trova dietro per ricordarci che non c’è assolutamente niente. Ogni territorio è stato conquistato, ogni persona ferita, ogni idea prodotta e l’amore, forse solo l’amore, può portare Neo e Trinity a usare la realtà e la sua controparte - ma esiste ancora una contrapposizione tra le due parti in causa nel 2022? - in modo totalmente fluido come un parco giochi personale dove tutto è possibile. Chi se ne importa di Zion? Delle pseudo spiegazioni di Niobe ora generale? Il mondo fuori Matrix non è poi così interessante, non lo è mai stato, ed è giusto lasciare la scelta a noi spettatori se vivere in questo non luogo dello schermo (che il personaggio del Merovingio denigra) o fuori. Oppure ammettere che ormai l’una vive in funzione dell’altra.

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