L’Italia del maxiprocesso a Palermo, dell’ascesa della Fininvest, della P2, della fine del partito comunista, della cultura paninara, dell’acquisizione di Maradona e del primo scudetto del Napoli. L’Italia degli anni ‘80 è yankeeland, quella della sudditanza psicologica verso gli Stati Uniti e del colonialismo culturale sfrenato. Gli anni ‘80 sono il decennio che ci ha definito e nondimeno ha definito Paolo Sorrentino. “È stata la mano di Dio” è una coming of age story, a tutti gli effetti, che ci racconta chi è il regista. Il suo alter ego, Fabietto (un bravissimo Filippo Scotti), ci trascina in quella stagione decisiva, nel bene e nel male che fu l’86/87. Un sedicenne che vuole fare il filosofo, in preda a forti quanto ingenue pulsioni sessuali, e la cui vita riposa tra scorci fatti di intimità domestica, grossi pranzi in famiglia e giornate al mare, partite al campetto e lo spettacolo stanco che è la vita che si ripete continuamente. Scordatevi “Chiamami col tuo nome” con la sua bourjois plastica e Amarcord, qui c’è Sorrentino che si mostra scorticato, per la prima volta al suo pubblico e lo fa a modo suo, scrollandosi le influenze di dosso.
Ci sono tutti i suoi stilemi e le sue fisime: l’estetica del brutto, le donne, la cultura alta e bassa che si incontrano, il teatro, Maradona, Fellini e un carosello di personaggi in cui si sente l’impronta, eppure tenera, del ricordo, e dei bellissimi perdenti. Nessuno è realmente cattivo, alcuni sono segnati più di altri, non si salva nessuno: dalla bella zia Patrizia impazzita dal dolore all’amico contrabbandiere di sigarette, passando per Maradona come ben sappiamo, presenza-assenza ingombrante ma silente nella vita di Fabietto e di tutta Napoli. C’è un prima e dopo Maradona a dare il tempo alla vita del protagonista: dall’attesa dell’acquisto al Napoli alla brillante doppietta Mondiale e Scudetto, Fabietto diventerà Fabio scontrandosi con quel crudele nonsense da risata registrata che è la vita. La morte di entrambi i genitori, per una fuoriuscita di monossido di carbonio nella casa in montagna, è la ferita primigenia, il doloroso rito di passaggio dall’infanzia all’età adulta. Allora sarà bene guardare al futuro con degli interessi, il cinema, e una possibile carriera, il regista. ‘Il sesso è un modo di guardare al futuro’ dirà la baronessa, un personaggio dolente, disturbante e con dei modi trattenuti ma gentili e saggi. La perdita della verginità è una piccola morte, ma anche un modo di spingere Fabio alla pulsione di vita, lontano dai ricordi di una famiglia per alcuni versi disfunzionale e, per altri, pregna di cura l’uno per l’altra.
Sorrentino guarda al passato, al suo, e lo fa con uno sguardo ‘ferito ma brillante’: in ogni scena domestica rubata al suo vissuto c’è un sentire vivo, ancora. Il fischio d’intesa e di risposta tra i suoi genitori, gli scherzi della madre, la forza calma del fratello maggiore Marchino (da tenere d’occhio anche Marlon Joubert), gli attacchi di panico di Fabio, i litigi e le urla tra marito e moglie, le verità non dette, Sorrentino ci rimanda il ritratto di una famiglia globale e noi lo sentiamo sulla nostra pelle. Maradona dov’è in tutto questo? Ovunque eppure da nessuna parte come la Storia. Scandisce la nostra di storia e si fa Deus ex machina quando serve: Fabio si salva dalla fuoriuscita di gas per vedere il Napoli giocare contro l’Empoli. Maradona è anche una forza salvifica per chi vede nel calcio un riscatto da una vita difficile. Ma anche la Storia viene messa sul muto quando ci sono dolori troppo grandi da metabolizzare e Maradona lascia spazio al silenzio e quel rospo in gola che sono gli addii. È stata la mano di Dio è una lettera d’amore per Napoli, cantrice di se stessa, per un passato che, a posteriori, si giudica con più indulgenza, per quella ‘perduta gente’ che ci ha abbandonati troppo presto e anche per noi stessi che piangiamo la nostalgia pastorale di una casa, dell’utero.