Il mondo è impazzito per il gioco del calamaro. Non si esce vivi da Squid Game, la nuova serie Netflix che, partorita nella Corea del Sud, sta conquistando il mondo intero al punto che probabilmente vostra nonna vi ha già telefonato, dal fisso, per chiedervi di non farle spoiler sui destini di Seong Gi-hun e compagnia massacrante. Nove puntate da (a volte oltre) 50 minuti ciascuna, dobbiamo questo gioiellino dello streaming contemporaneo alla mente di Hwang Dong-hyuk che ha pensato, scritto e diretto tutto il cucuzzaro. A quanto racconta, stava covando il progetto dal lontano 2008 con l’iniziale idea di farci un film ma nessuno gli dava retta perché troppo violento e surreale a livello di concept. Oggi quell’idea così stramba e fuori di testa è diventata realtà e riceve encomi dalla stampa mondiale come dai social, mentre Netflix gode per aver trovato la sua nuova gallina dalle uova d’oro. L’entusiasmo è palpabile e oramai pandemico, ma fermi tutti: e se Squid Game fosse una cagata pazzesca?
Fermate il countdown, non abbiamo detto lo sia. Stiamo solo sommessamente mormorando “What if…?”. Il mondo intero si è preso una sbornia colossale per il gioco del calamaro, bene, ma del resto se l’era presa anche per Chihuahua di Dj Bobo qualche estate fa. Proviamo, quindi, ad analizzare questo epocale capolavoro, ma facciamolo da sobri. Per esempio, partendo da un primo presupposto oggettivo: Squid Game è arrivata su Netflix il 17 settembre e qui da noi se ne è sentito ciarlare per la prima volta direttamente dalle parole di Ted Sarandos, co-amministratore delegato di Netflix, che ha dichiarato, il 27, quindi ad appena dieci giorni dall’uscita, la seguente cosetta: “ci sono buone possibilità che diventi la nostra serie più grande di sempre”. E che? Non lo butti un occhio sulla serie Netflix “più grande di sempre”? La Big N ci ha regalato Strangers Things e prima ancora House of Cards, pur avendoci inflitto La casa di carta (Bella? Ciao. Ma comunque oramai un fenomeno universale, tipo il biblico diluvio).
Di conseguenza, una volta che questa dichiarazione è rimbalzata a social unificati, anche i più virtuosi cinefili duri e puri un play con skip intro l’hanno concesso a Squid Game. Da lì è stata estasi. La sinossi della serie, la ricordiamo per chi avesse vissuto le ultime due settimane in un buco di trama - o in Corea del Nord, dove Netflix non è disponibile), è presto detta: 456 sciagurati sudcoreani pieni di debiti per una serie di vicessitudini accettano di rinunciare ai propri diritti fisici per poi essere, a loro insaputa, narcotizzati e portati in una misteriosa location dove guardie in tuta amarantognola e maschere li obbligano a fare giochi da bambini (Un due tre stella, gara di biglie e così via). Chi perde, però, viene eliminato. Ovvero: viene letteralmente freddato all’istante in modi parecchio cruenti. In palio per l’ultimo superstite, se ne rimarrà uno, così tanti soldi da far sentire povero Elon Musk.
La storia si spalma lungo nove episodi per un totale approssimativo di altrettante ore di durata. Ore che non torneranno mai più. Questo anche per darvi una tara sulla densità operativa della vita di chi racconta fieramente, sui social, di essersela vista tutta in binge watching. La novena di Squid Game si sgrana inesorabile costellata da reference a produzioni Netflix di successo (La casa di carta, basti guardare le tute delle guardie) per far accomodare il target in qualcosa di famigliare, scenografie pazzesche (sì, ai sudcoreani è piaciuto molto Escher) e parecchie lungaggini che ritardano prolissamente il momento dell’azione (ovvero quando e come la gente muore male, le uniche scene davvero interessanti). Ci sono personaggi scritti benissimo e con archi meravigliosi, insieme a comparse che sarebbe meglio fossero rimaste tali (il poliziotto, ragazzi, seriamente?). L’impressione generale è quella di un pippone sulla scarsa moralità di questo mondo contemporaneo perché il capitalismo, signora mia, che brutta bestia. Ciò anche nelle intenzioni dell’ideatore (e sceneggiatore e regista e, ci immaginiamo, capo-attrezzista) della serie che di recente ha dichiarato: “Squid Game è un’allegoria sulla società capitalistica postmoderna”. Come non prendere i pop corn? E uno scaldasonno.
Inoltre, parliamo dei calchi: questa visione cinica e spietata dell’essere umano che tenta di sfangarla come può (o come deve) per non soccombere mentre altri, più fortunati, godono a vederlo appunto soccombere, è un cliché tipico del modo che il cinema coreano ha di vedere il mondo. Bong Joon-Ho, per esempio, nel 2020 ci ha vinto 6 Oscar con Parasite (anche grazie a Gianni Morandi, ricordiamolo). In 132 minuti. Non nove ore di sadismo misto boria con quattordici estenuanti colpi di scena finali tipo stazioni della via crucis mentre chi guarda vorrebbe solo che gli sceneggiatori ne scegliessero uno, di finale, magari definitivo, arrivederci e grazie. Inevitabile, poi, pensare a Old Boy (intendiamo l’originale, non quella putrida americanata del remake USA diretta con la mano sinistra da Spike Lee) e la citazione è dichiarata quando uno dei personaggi - no spoiler - arriva a somigliare fisicamente (taglio di capelli, outift) al vendicativo protagonista del film di Park Chan-wook (che si trova, placido, su Prime Video senza che nessuno, in tempi recenti, abbia mai gridato al capolavoro. Purtroppo). Intendiamoci: la sinossi di Squid Game è una bomba (se non vogliamo pensare all’evidente rapporto di quantomeno cuginanza con Hunger Games o Battle Royale) ma se dobbiamo dire che sia rivoluzionaria o mai sentita prima, ecco, no, questo proprio non si può affermare. Almeno non al di fuori della sbornia colossale di cui sopra.
Certo, l’Italia su Netflix, lato fiction, piazza orrori del calibro di Luna Park, Curon e, perdonate la ripetizione, Luna Nera. È chiaro che Squid Game, paragonato agli sforzi creativi di casa nostra, appaia fulgidamente come un progetto proveniente dal 3055. Però, calma e sangue freddo: se qualcosa è fatto un filo meglio di “malissimo” non significa che sia un capolavoro. Il sillogismo non regge ed è bene chiamare le cose con il loro nome, di quando in quando.
Ha senso guardare Squid Game? Assolutamente sì, è un prodotto ben fatto e curato fin nei minimi particolari con personaggi che probabilmente vi resteranno nel cuore per più dei cinque minuti medi che di media si dedicano all’affetto incondizionato per “quelli delle serie tv”. Siamo dell’idea che esista un ventricolo preposto a ciò e che non rimarrà indifferente ad alcune storie lacrime-strappa narrate nella serie. L’unico consiglio che ci sentiamo di darvi, prima della necessaria visione - “necessaria” perché altrimenti non avrete nulla di cui parlare con gli amici di questi tempi -, è di scegliervi un cuscino bello comodo e di non sentirvi in difetto quando avrete quella vaga ma specifica sensazione di noia da palpebra calante. Nessuno lo dice, ma è Squid Game in certi momenti di mortale ha proprio la noia che genera nello spettatore. Ma, tranquilli, non è necessario memorizzare lucidamente il minutaggio completo per poter capire cosa stia succedendo. Tipo Beautiful, facendo la tara sulle tempistiche, ci si raccapezza egregiamente anche dopo un sacro sonnellino di venti minuti a episodio.
Nel coro angelico di elogi e grida al miracolo, pareva arrivato il momento che qualcuno, pure fantozzianamente, prendesse il coraggio di alzarsi in piedi e dire: “La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca”. Perché va bene l’intrattenimento ma chi si sta sentendo fine intellettuale davanti a Squid Game, farebbe bene a rendersi conto di essere alle prese con La casa di carta versione radical chic. Un prodotto mainstream come un altro, con chiare derivazioni da moltissimo di ciò che esteticamente e cinematograficamente esiste già da decenni ma ammantato di un rigoroso velo di profondità misto pesantezza a tratti insostenibile. Un fritto misto di alto e basso per non scontentare nessuno. Dobbiamo, dunque, esserne necessariamente contenti? Abbiamo sottoscritto un abbonamento a Netflix, non alla rinuncia dei nostri diritti allo spirito critico. “Empieza el Calamaro”.