Vincitore ex aequo del Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes, e rappresentante dell’Iran agli Oscar 2022, “Un eroe” rappresenta il ritorno all’ovile di Asghar Farhadi nel paese delle tante contraddizioni e di chi lo ritiene un sostenitore del governo. Ed è su questo che si sviluppa “Un eroe”, sul sospetto, sulla tensione e la frustrazione che corrodono un paese, sentimenti negativi supportati dal carattere invasivo e invalidante dei social media. Rahim è in carcere per un debito da saldare, come un deus ex machina la fidanzata trova una borsa con diciassette monete d’oro che potrebbero ripagare parte del debito che Rahim ha contratto con Bahram. Dopo delle remore iniziali, Rahim cerca di ritrovare chi ha smarrito la borsa diventando così l’emblema dell’onestà in un’epoca in cui, tramite i social, si lucra anche sulla salute altrui.
Gestire i media potrebbe rappresentare l’equivalente odierno di moderare l’apocalisse armati di un colino e buone intenzioni, e il protagonista ci prova goffamente a fare sua, passato lo stordimento iniziale, l’arte della manipolazione - solo qui si coglie tutto l’amore che ha Farhadi per il nostro cinema neorealista -. Ben lontano dai precedenti film e dalle parentesi europee, Un eroe per le intenzioni si avvicina a “Il cliente” smarcandosene, però, nel raccontare, in parte, quella tv del dolore che noi da un ventennio conosciamo troppo bene, ma che in Iran si sta manifestando solo ora in un fortunato ritardo. Il video col figlio di Rahim, per sostenere la ‘causa’ del padre, permeato da patetismo e ben lontano dal commuovere chi guarda, è un memento mori di Farhadi e sui metodi brutali che decidiamo di adottare per relazionarci agli altri: per liberarci da una certa pressione sociale, e non essere malgiudicati da un invisibile giudice che chiede di mostrare un fantomatico lato umano che, portato ai massimi estremi, non fa che parodiare quegli stessi sentimenti da cui fuggiamo fino a farci venire scompensi umorali.
In un’epoca in cui l’identità è frammentata, i valori sono svenduti in programmi come ‘Affari di famiglia’, e nessuno vuole assumersi alcun tipo di responsabilità, la società ha bisogno di eroi che abbiano la durata di una storia Instagram; di elevare a status di Dio en passant un uomo qualunque che, in questo caso, non fa nulla di straordinario se non comportarsi come ci si aspetterebbe da un uomo integro e sorretto da una dignità comune. Ed è questo che interessa al regista che, come sempre, parte da una tesi estremamente semplice per poi crescere in uno spettro di grigi che la società non vuole affrontare, troppo comoda e assestata ben bene su una visione manichea di fatti e persone: criminale o eroe, colpevole o innocente. Ma come per Rahim di cui sappiamo poco fino alla fine se non attraverso i gironi di persone – interessate o meno - che lo circondano, anche il creditore Bahram ha una figlia da tutelare e una storia che va ben oltre l’intransigenza dimostrata nei confronti del protagonista.
Per nessuno, e men che meno per Rahim, c’è tempo per intraprendere un colloquio intimo con se stessi tanto si viene travolti dalla televisione, Facebook e altro ancora, e prima di potere assaporare la libertà (?) non si è ancora riusciti a mettere a fuoco avvenimenti e persone, soprattutto quelle comparse, che nelle vite di tutti, vogliono vivere per interposta persona la fama: dai parenti agli amici, passando per estranei e personale del carcere dove Rahim deve scontare la pena. Per dirla coi Rolling Stones ‘stanze grandiose piene di parassiti’ soprattutto se fare da sfondo è la città di Shiraz, la perla dell’antica Persia, perfetto contraltare alla parabola di Rahim, più greve che poetica; Shiraz, ben più piccola della capitale Teheran, è la cassa di risonanza ideale per una storia di redenzione apparente e riscatto. Ispirato a un fatto di cronaca, “Un eroe” è tra gli esercizi migliori di Asghar Farhadi benché tutta la tensione tragica si disperda nelle ultime battute, insinuando tutto e non riuscendo a fare abbastanza leva sull’ambiguità che si porta dietro lo sguardo e la posa sottomessa, forse, di Rahim.
D’altra parte, nell’epoca della fibra ottica, è impossibile capire quale sia la verità, e se ne esista soltanto una, e se le stesse persone coinvolte sappiano realmente qualcosa, oltre ciò che dichiarano al prossimo, sconvolti dalla velocità con cui tutti innalziamo statue per il solo gusto di abbatterle.