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I giornalisti applaudono “Illusioni perdute”, ma è il film (bellissimo) che svela le loro ipocrisie

  • di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

20 gennaio 2022

I giornalisti applaudono “Illusioni perdute”, ma è il film (bellissimo) che svela le loro ipocrisie
Un’opera meravigliosa, d’altri tempi, che riesce nell’impresa di sintetizzare al meglio l’imponente lavoro di Balzac. Il regista Xavier Giannoli fa una istantanea inquietante del presente: forse non siamo artisti della parola, ma venditori di fumo legalizzati

di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

Quando “Illusioni perdute” finì in sala grande, alla Mostra del Cinema di Venezia, ricordo un caloroso applauso e critiche entusiastiche in quel chiacchiericcio che contraddistingue l’imbuto umano che portava noi critici verso l’uscita. L’ultimo film di Xavier Giannoli, da poco anche portato in tutte le sale italiane, mette in scena il bel tableaux vivant di Honorè de Balzac che, a distanza di quasi due secoli, racconta più che il mondo delle fake news il mestiere del giornalista in questi anni. Mi sembravano strani quegli applausi, non tanto per il film che si colloca tra i migliori della stagione, ma perché Giannoli, così come Balzac, aveva messo alla gogna quegli stessi miei colleghi che per una manciata di euro si (s)vendono agli uffici stampa, o modificano la propria opinione per non pestare i piedi all’artista di turno.

Il poeta Lucien (Benjamin Voisin) si trasferisce dalla piccola Angoulême nella Parigi post-Restaurazione sia per poter coronare il suo sogno che per seguire il suo amore proibito, la bella e nobile Madame de Bargeton con cui aveva dato scandalo in campagna. La capitale lo porterà tra ‘la perduta gente’ e false promesse, da un editore analfabeta (il grande Gerard Depardieu), arrampicatori sociali, intrighi politici e storie d’amore complicate. Una vera e propria parabola quella di Lucien con cui si empatizza fino a un certo punto: Lucien è causa del suo stesso male e tradisce la propria arte per vivere quella stagione di facili entusiasmi e guadagni che era la professione, in ascesa, del giornalista scandalistico. Il cognome di Lucien è Chandon, ma lui usa quello nobile della madre che è Rubempré, e per la Parigi già dimentica del sangue versato durante la Rivoluzione, fingersi un nobile è un tradimento alla Francia stessa.

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L'attore Gérard Depardieu

Xavier Giannoli ci offre un quadro opprimente, grottesco, tragicomico del giornalismo, che si avvicina più a Wall Street all’epoca di Patrick Bateman e degli yuppie, che a “La signora del venerdì” o “Tutti gli uomini del presidente”. Una stagione orgiastica, di rivalità e di pseudo amicizie, un po’ Barry Lyndon (il libro di Thackeray è coevo) ma senza la sua cattiveria e indolenza. In Illusioni perdute chi spicca davvero, più del povero poeta Rubempré, è il sottobosco di creature fantastiche che accolgono e poi rigettano chiunque non si adegui al loro ordine fatto di entropia, pugnalate alla schiena e classismo. Da Nathan (un perfetto Xavier Dolan) rivale ma amico silenzioso di Lucien,  sostenitore dell’arte in mezzo al circo che è diventata l’industria culturale; Etienne Lousteau (Vincent Lacoste) la cinica guida di Lucien nella giungla del mestiere di giornalista; la Marchesa d’Espard (brillantemente interpretata da Jeanne Balibar) vero elemento determinante nella vita professionale e privata di Lucien; la tenera amante Coralie (Salomé Dewaels), un’attrice dalle origini umili e da una vita difficile che più che un aiuto per il poeta si rivelerà una compagna troppo sprovveduta.

Chi ha un maggiore potere d’acquisto diventa un artista, questo ci insegnava ‘ieri’ Balzac, e vale oggigiorno dove - oltre le importanti amicizie e legame di parentela - chi può permettersi di farsi pubblicità e oliare un buon ufficio stampa, finirà inevitabilmente per emergere, con buona pace del potere democratizzante del web. “Illusioni perdute” è un film meraviglioso, d’altri tempi nell’accezione positiva del termine e riesce nell’impresa di sintetizzare al meglio l’imponente lavoro di Balzac. Giannoli fa una istantanea inquietante del presente benché l’opera rimanga, ahimè, l’elefante nella stanza, il parente di cui non vuoi parlare durante le feste comandate, l’indicibile verità che non vogliamo ammettere: forse non siamo artisti della parola, ma venditori di fumo legalizzati.

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