Le Acciughe Fanno il Pallone è il tesoro nascosto di Fabrizio De André. C’è la musica, la poesia, il mistero. Ma anche il genio, la necessità di cogliere l’attimo e la libera interpretazione. C’è Genova, con i suoi pescatori legati alla tradizione, e la natura con le sue regole altissime. Sono cinque minuti in cui c’è tutto Fabrizio De André. E per questo è una canzone da ascoltare la sera, a casa, preferibilmente con un buon bicchiere in mano e le luci basse. Scritta assieme ad Ivano Fossati che ne ha curato le musiche, Le Acciughe Fanno il Pallone è la quinta traccia di Anime Salve del 1996, lo stesso disco in cui sono incise Prinçesa, Dolcenera e Ho Visto Nina Volare. Un disco che racconta “Il tema della solitudine, che spesso deriva dall’emarginazione. Un’emarginazione che trae origine da comportamenti diversi dalla maggioranza degli esseri umani”.
Io la ascolto con mia figlia, le piace l’idea della stella marina e dell’aereo che vola. Inutile dirlo, De André è anche questo. Un linguaggio universale, perché le cose belle non hanno bisogno di essere spiegate, semmai fanno un piccolo miracolo portandoci ad andare loro incontro.
Ernest Hemingway ed Herman Melville lo hanno spiegato così il mare, alla stessa maniera. Il mare che è troppo grande per farsi fregare, che anche quando ti offre una scelta sta sempre scegliendo per te. Le acciughe - che per i pescatori di un tempo sono stelle cadute in mare - fanno il pallone per proteggersi dall’alalunga, un tonno bianco. È l’unione dei piccoli che batte il potente, una lotta politica e di classe. Ma il pescatore lo sa, quindi getta la rete quando loro si raccolgono per proteggersi. Deve prenderne il più possibile, anche se poi le venderà per niente. Beve “un sorso di vena dolce, che liberi dal male”, perché l’alalunga le acciughe non le avrebbe vendute.
Il pescatore conta i giorni, gli ami, le bocche della città vecchia. Guarda le turiste che passano distratte tra le reti puzzolenti ad asciugare al sole. E spera nel pesciolino d’oro come se potesse esaudire i suoi desideri, farlo uscire dalla ruota in cui è vittima e carnefice. E da Hemingway, per noi che ascoltiamo oggi, è un attimo passare ad Aureliano Buendìa, che i pesciolini d’oro li fabbrica in casa in Cent’anni di Solitudine. Così la canzone ti porta in giro, con la voce di Fabrizio De André e con un flauto che sembra uscito da un disco dei Jethro Tull. Non è mica definitivo come Lucio Dalla e onirico come Franco Battiato, è solo De André: sempre per tutti e per tutti unico.
All’ennesimo ascolto giungo alla conclusione che le acciughe continuano a fare il pallone e tu continui a fotterle, un po’ per sopravvivere e un po’ perché non sai fare altro. Ed è un po’ così per tutti noi, con la nostra bottiglia legata stretta e un pesciolino d’oro in mente.