Un sei che si raddrizza consacrandosi in un nove, vicini come nella pagella, il primo quadrimestre a fianco al secondo.
Che è quasi la perfezione, ma quella attiene agli dei, non certo a noi: Vasco Rossi ne fa 69 proprio oggi. Lui, il più sottosopra di tutti che s’è raddrizzato restando in bilico, proprio come un nove, che dondola sempre e non è mica stabile. Me l’ha detto Facebook, perché non me lo ricordavo affatto.
Però avevo la bacheca piena di auguri a Vasco Rossi e sono andato a guardare: 7 febbraio 1952. Allora ho aperto pure la calcolatrice: 2021 – 1952 = 69.
Oh, 69! Che fai, si presta troppo, non butti già qualcosa sui sessantanove di Vasco Rossi?
La prurigine c’entra solo per tenere il titolo, sia inteso, però se per quelli normali si “celebrano” le cifre tonde, bisognerebbe istituire una regola secondo cui delle rockstar andrebbero celebrati i 69. Per quelle che ci arrivano.
Vasco ci è arrivato; sparando a gas aperto finchè ha voluto e poi imparando, e forse anche insegnandoci, che pure l’uso dei freni può dare immense scariche di adrenalina. Aprire a tutta, frenare tardi, ma pinzando forte. Che poi è la vera Vita Spericolata che lui cantava e a cui, alla fine, abbiamo ambito tutti. Altrimenti sarebbe devastazione e basta e a 69 non ci arrivi nemmeno a tre cilindri.
Già, i motori. I motori c’entrano sempre. Anche solo come metafora, ma per Vasco Rossi ci sono entrati pure per davvero. Perché ha conquistato un autodromo senza essere Nuvolari, Senna o Hamilton. E perché è stato campione del mondo in moto all’inizio del millennio come proprietario di un Team che schierava quattro Aprilia tra la 125 e la 250. Pure Valentino Rossi recentemente ha detto di “essere orgoglioso di essere il secondo Rossi”, anche se è uno che ha sempre e solo voluto essere primo. E poi c’è Modena, che gli ha dato i natali, e quelle colline condivise con la tradizione più radicata di motori e motorsport.
La staccata più bella, quella che ha cambiato la sua storia e la storia del rock in Italia, Vasco Rossi l’ha fatta proprio in un autodromo. Era giugno o giù di lì ed era il 1998, a Imola. Una celebrazione di massa in un concerto che è diventato un doppio disco grandioso, tra i prati e l’asfalto di un luogo che quattro anni prima aveva visto morire Senna. Ci sono posti fatti per ospitare la storia, qualunque storia, e Imola è uno di quelli. Vasco Rossi quel luogo l’aveva scelto proprio per pinzare fortissimo, alzare il posteriore in una delirante decelerazione scomposta, entrare i curva insieme a più di centomila persone e riaprire poi il gas nel rettilineo della maturità. Chiunque ha amato Vasco è ben consapevole che in quella violentissima staccata di Imola ha perso la targa senza andarsela più a ricercare. Quale? Quella di maledetto. Non serviva più e non faceva neanche bene. Quel giorno del 1998 ho capito il senso della frase, troppo spesso ostentata con espressioni da ebete, “Io c’ero”.
Un anno prima, nel 1997, la sua vita ci si era incrociata pure in maniera più concreta con i motori. Aveva fornito i fondi necessari, infatti, per la World Wide Race, meglio nota come Vasco Rossi Racing, con un team nel mondiale 125 e Ivan Goi come pilota. Le moto erano le mitiche Aprilia e Vasco ha sempre raccontato che per un attimo, in quell’anno, s’era pure sfiorata la possibilità che in sella ci salisse un certo Valentino Rossi. Poi sappiamo tutti come è andata. Poco dopo raddoppiò gli sforzi, sbarcando pure in 250, ma è da Campione del Mondo che ha lasciato il giro delle corse: con Roberto Locatelli, nel 2000. L’anno successivo il team fu ceduto. Fine della storia a cima raggiunta: senza parabole discendenti, come una rockstar. Una rockstar che adesso la moto se la gode per qualche passeggiata con il figlio. L’ultima messa in garage è una Yamaha, come vi avevamo già raccontato qui, quando l’ha usata come palcoscenico per mandare a cagare i negazionisti del Covid19.
Il Covid, quello che non gli sta negando di provare a organizzare il ritorno a Imola, una celebrazione da regalarsi e regalarci in occasione dei 70, 23 anni dopo la prima volta. Non sarà facile, probabilmente non sarà nemmeno possibile, visto come stanno andando le cose. Ma forse, come direbbe lui, “Va bene così, senza parole”.