Oggi più di prima, Anna Politkovskaja rimane la giornalista moscovita che meglio incarna – soprattutto in questi giorni di aggressione russa contro l’Ucraina – la presa di coscienza documentale della ferocia sanguinaria che da un ventennio ha contraddistinto l’ascesa e l’operato di Vladimir Putin alla guida della “nuova” Russia. I suoi coraggiosi reportage sulle violazioni dei diritti umani, sia in patria sia nelle regioni in cui l’ex Urss ha fatto la guerra, l’hanno resa famosa per la minuzia delle ricerche, per l’audacia delle argomentazioni, per la precisione delle accuse a un regime che, dietro la facciata di una “democrazia” in costruzione, si è rivelato fin dall’inizio il frutto avvelenato del peggior sovietismo.
La Russia di Putin, volume già pubblicato da Adelphi nel 2005 e appena ridato alle stampe, è stato definito dall’autrice “un libro di appunti appassionati a margine della vita come la si vive oggi in Russia”: la vita quotidiana e le sue disavventure tragiche, la guerra in Cecenia coi suoi cadaveri “dimenticati”, le degenerazioni nella gestione dell’esercito, la nuova mafia di Stato radicata in un sistema granitico di corruzione e dipendenza, gli eccidi nel teatro Dubrovka di Mosca e la strage dei bambini a Beslan, in Ossezia.
Nel settembre 2004, mentre era in volo verso Beslan durante la crisi degli ostaggi, Anna Politkovskaja subì un tentativo di avvelenamento con una tazza di tè: l’aereo dovette rientrare per permettere un suo ricovero immediato. Due anni dopo, il 7 ottobre, fu assassinata con un colpo alla testa nell’ascensore di casa: accanto a lei una pistola Makarov con quattro bossoli. L’indomani la polizia sequestrò il suo computer e tutto il materiale dell’inchiesta a cui stava lavorando. Come rivelò l’editore Dmitrij Muratov, la Novaja Gazeta stava per pubblicare un suo reportage incentrato sulle torture commesse dalle forze di sicurezza cecene legate al Primo Ministro Ramzan Kadyrov.
Ne La Russia di Putin, Politkovskaja racconta le richieste di giustizia delle madri dei soldati seviziati e scomparsi nel nulla, le denunce contro le violenze dell’esercito in territorio russo e ceceno, le inchieste per reati di corruzione sempre insabbiate, la connivenza e il dispregio verso la giustizia manifestate dalla magistratura russa. L’anarchia esistente nelle file dell’esercito, il tradizionale sadismo con cui la casta degli ufficiali schiaccia i sottoposti, fino a ucciderli, e l’assoluta noncuranza del governo di Putin – l’ex tenente colonnello del Kgb che in quel terreno di coltura si è formato – sono le matrici del racconto, che si svolge in un susseguirsi di testimonianze, resoconti e verbali giudiziari che narrano senza pietà un Paese pronto a diventare ciò che è diventato oggi.
Queste le prime considerazioni, ancora attualissime, sulle operazioni militari in Cecenia: “La guerra in atto è assai utile e redditizia per l’esercito, fonte di promozioni lampo e di un gran numero di medaglie, fucina di carriere fulminee per i giovani generali ‘combattenti’ che gettano le basi per future scalate politiche e finiscono catapultati nell’élite di Stato. Putin, intanto, martella il Paese con i suoi slogan: la rinascita dell’esercito è un dato di fatto e lui solo, Putin, ne è l’artefice perché ha rimesso in piedi un esercito umiliato (da El’cin) e offeso (nella prima guerra cecena)”. “Come vi sentireste con un figlio diciottenne precettato quale ‘materiale umano’, come lo si definisce qui da noi? Che ne dite di un esercito da cui i soldati disertano in massa ogni settimana (e solo per avere salva la vita), talvolta in intere squadre o compagni? Che cosa pensereste di Forze Armate che in un solo anno, il 2002, hanno perso più di cinquecento uomini – un intero battaglione – non in guerra, ma per le percosse subite? Un esercito in cui gli ufficiali rubano di tutto: ai soldati i dieci rubli mandati dai genitori, e allo Stato intere colonne di carri armati? In cui gli ufficiali odiano e picchiano a loro discrezione i sottufficiali? In cui questi ultimi sfogano sui soldati semplici l’odio che provano per i superiori?”
Non ci stupiremmo se le condizioni dell’esercito russo fossero ancora queste, mentre sta distruggendo le città ucraine a cannonate e massacrando la popolazione civile. Nell’esercito di Putin è una tradizione trattare i soldati come schiavi degli ufficiali, che hanno sempre ragione e possono fare ai sottoposti qualunque cosa. Quello che Boris El’cin cercava di ottenere, ossia un controllo della società civile sulle strutture militari, che era sfociato anche in un progetto di legge, è diventato lettera morta: la formazione sovietica e militare del presidente Putin l’ha ritenuto inutile. La certezza del diritto, praticamente, non esiste: “Così vanno le cose in Russia: per stilare perizie legali non sono i fatti che contano, ma chi li manipola. Il risultato di una perizia dipende da chi la effettua”.
Un punto centrale, a partire dal quale si spiegano gli eventi di oggi, lo troviamo alle pagine 136-137. “La resurrezione della polizia segreta nel nostro Paese, il passaggio dal XX al XXI secolo di un’infrastruttura che serviva a mantenere intatto il sistema sovietico di pressioni e costrizioni, è o non è un caso? Ovviamente non lo è. Torniamo con la memoria al 2000, a prima che Putin fosse eletto. ‘Il diavolo non è così brutto come lo si dipinge’ dicevano in molti. ‘Che cosa volete che sia se viene dal Kgb sovietico? Si sgrezzerà, vedrete...’. È stata una valanga. Dietro di lui è venuta la sua squadra: prima qualche decina di uomini, i fedelissimi, quelli con cui aveva lavorato personalmente e di cui si fidava. Poi sono diventati qualche centinaio con gli amici degli amici, quelli di cui loro – e non Putin – si fidavano, e con i quali loro avevano lavorato. Ora sono migliaia e sono ovunque, a ogni livello, in tutti gli interstizi del potere. Siamo, dunque, circondati da gente di cui Putin e i suoi si fidano. Da un lato è normale. Dall’altro si è scoperto che questa gente si fida (e si fidava) solo dei propri ‘simili’, e che i loro ‘simili’ hanno tutti un passato nel Kgb. Quindi le strutture di potere e di semipotere della ‘nuova Russia’ sono state inondate da cittadini con determinate tradizioni alle spalle, con una mentalità educata alla repressione, con un certo modo di risolvere le questioni di Stato...”
Facciamo un salto all’oggi: l’annessione della Crimea da parte della Russia è stata fatta passare per il risultato di un pronunciamento popolare, un referendum-farsa organizzato in due settimane sotto l’occupazione dei cosiddetti “omini verdi”, militari russi anonimi, privi di contrassegni o simboli di appartenenza, senza che ci fosse la possibilità di alcun dibattito pubblico. In pratica, la Russia è diventata una miscela quasi mistica di autoritarismo sanguinario, ortodossia religiosa, nazionalismo, diffidenza verso il mondo esterno, spirito di rivincita per recuperare la grandezza passata. Non stupisce che oggi, di fronte a un Paese ridotto in queste condizioni, qualunque Stato che ne venga aggredito scelga di difendersi per proteggere la propria libertà a qualunque costo. E questa realtà concreta le élite russe non l’hanno capita: si sono convinte di poter soggiogare il “sotto-popolo” ucraino solo occupandone il terreno, perché sono rimaste vittime della loro stessa propaganda. Cresciute nel loro mondo e nelle pratiche violente e liberticide, si sono creati un sistema di ricchezza e potere che presuppone necessariamente il dominio e l’annientamento delle libertà democratiche.
E ora andiamo all’ultimo capitolo, grandemente rivelatore. “Ancora poche ore, e il 7 maggio del 2004 Putin, tipico tenente colonnello del Kgb sovietico con la forma mentis – angusta – e l’aspetto – scialbo – di chi non è riuscito a diventare colonnello, con i modi di un ufficiale dei servizi segreti sovietici a cui la professione ha insegnato a tenere sempre d’occhio i colleghi, quell’uomo vendicativo (alla cerimonia di insediamento non è stato invitato nessun rappresentante dell’opposizione o di qualunque partito che non sia in completa sintonia con il suo), quel piccoletto che ci ricorda così da vicino l’Akakij Akakievič gogoliano in cerca del suo cappotto, tornerà a insediarsi sul trono. Sul trono di tutte le Russie”.
“Il nostro ex kgbista non ha trovato inciampi sul suo cammino. Né in Occidente, né in un’opposizione seria all’interno del Paese. Per tutta la sua cosiddetta campagna elettorale – dal 7 dicembre del 2003 al 14 marzo 2004 – Putin si è fatto beffe del suo elettorato. In primo luogo perché si è rifiutato di discutere alcunché con chiunque. Non ha mai ritenuto opportuno fornire spiegazioni riguardo a qualsiasi punto del suo programma per i quattro anni precedenti. Ha mostrato disprezzo non solo per i rappresentanti dell’opposizione, ma per l’opposizione in quanto tale. Non ha fatto promesse. Non ha fatto appelli. Come in era sovietica, la televisione lo mostrava quotidianamente in tutte le sue ipostasi politiche: per esempio mentre riceveva i più alti funzionari nel suo ufficio del Cremlino e forniva loro consigli preziosi su come gestire il ministero o l’ente di loro competenza”.
“Va da sé che, non incontrando resistenza, Putin si è fatto ancora più insolente. Non è vero che non guardi in faccia niente e nessuno, che nulla lo turbi e che si limiti a portare avanti la sua linea per restare in sella. Le guarda, le facce, eccome. La osserva attentamente, la nazione che ha sotto di sé. E lo fa perché è un čekista, uno sbirro della polizia segreta. Il suo è il tipico comportamento di chi ha lavorato per il Kgb. Per dare informazioni in pasto all’opinione pubblica sceglie una ristretta cerchia di persone. Persone che nel nostro caso sono il bel mondo politico della capitale. Lo scopo è tastare il terreno e sondare le reazioni. Se non ce ne sono, o se la reazione è amorfa, gelatinosa, tutto procede per il meglio e si può continuare, si può andare avanti a diffondere le proprie idee e agire come si ritiene opportuno senza troppe remore”.
E qui vediamo in pieno la volontà di spaventare: la stessa tecnica che Putin ha adottato in questa guerra distruttiva, dove ha creduto di inginocchiare l’Ucraina e il mondo occidentale con le minacce. “I putiniani – quelli che l’hanno messo dov’è, che volevano che salisse al trono una prima volta, quelli che ora siedono nell’ufficio del presidente e di fatto guidano il Paese (non il governo, che esegue le volontà del presidente, e non il Parlamento, che ratifica le leggi che il presidente vuole) – seguono con grande attenzione le reazioni dell’opinione pubblica. Non è vero che se ne infischiano. E ciò significa una cosa importantissima: i veri responsabili di quanto sta accadendo siamo noi. Noi, e non Putin. Il fatto che la nostra reazione a lui e alle sue ciniche manipolazioni si sia limitata a sparuti borbottii da cucina gli ha garantito l’impunità nei primi quattro anni di mandato. La nostra apatia è stata senza confini e ha concesso a Putin l’indulgenza plenaria per i quattro anni a venire. Le nostre reazioni a quel che ha detto e fatto non sono state solo fiacche, ma impaurite. Abbiamo mostrato di aver paura dei čekisti, inducendoli a perseverare nel trattarci da popolo bue. Il Kgb rispetta solo i forti, i deboli li sbrana. E lo dovremmo sapere, ormai. Invece ci siamo scelti la parte dei deboli e siamo stati sbranati. La paura è pane per i denti di un čekista. Non c’è nulla di meglio, per lui, del sentire che la massa che vorrebbe sottomettere trema come una foglia. Era ciò che volevano. Giornali e televisione traboccavano della nostra paura. L’opposizione non faceva che ripetere quanto grande fosse il pericolo – e dunque la sua paura – che Putin fosse rieletto... E anche lei è stata sbranata”.