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I giornalisti si scoprono semiologi
per interpretare le mosse di Putin,
ma non ne azzeccano una:
il campionario dei migliori abbagli

  • di Fulvio Abbate Fulvio Abbate

21 marzo 2022

I giornalisti si scoprono semiologi per interpretare le mosse di Putin, ma non ne azzeccano una: il campionario dei migliori abbagli
Dopo che i 60 milioni di allenatori di calcio si sono trasformati in 60 milioni di virologi, ora l’ennesima mutazione: siamo tutti diventati semiologi. Ma la categoria che più si è distinta in questa pratica è quella dei giornalisti con commenti, chiose e analisi tratte da qualunque dettaglio nei gesti o nel modo di vestirsi di Vladimir Putin che potessero alludere a sostenere le loro tesi sulle prossime mosse che il presidente russo ha in mente di intraprendere nell’invasione Ucraina. Tutte, però, puntualmente smentite dai fatti

di Fulvio Abbate Fulvio Abbate

Se fosse un romanzo dovrebbe intitolarsi “Il cappotto di Putin”, che in verità è un parka, da non confondere con l’eskimo, tutt’altra storia semiologica, politica, umana. La semiologia, infatti, è scienza dei segni, si affida al significato, al significante e al referente. Dove il significante è l’oggetto mostrato, mentre il significato la volontà propagandistica che, nella fattispecie, mostra il “criminale” che lo indossa. Il referente la storia del mondo stessa, dalla slitta dello zar alle Zhiguli prodotte in Urss a Togliattigrad, ai giorni di tragedia ucraina. La semiologia è interpretativa, una branca della linguistica. Da decenni ormai sembra che molti ne siano laureati, senza averne frequentato neppure l’avviamento. Una subcultura giornalistica, fondo commento e elzeviro, che si ferma al “dettaglio”, sui significanti traducibili nel lessico pop di Warhol. Segni, appunto. Di riconoscimento: ora sociologico ora antropologico. I semiologi veri si occupano esattamente di questo, solo che essi hanno a lungo meditato su de Saussure, luce della linguistica moderna, la branca conosciuta con il nome di strutturalismo, così da andare oltre l’apparente insignificanza delle “cose”; fosse anche un cartello stradale, una bandiera segnaletica da spiaggia. Nel caso dell’aggressione russa all’Ucraina, potrebbero sbizzarrirsi sulla Z segnata sui carrarmati di Putin. Così da distinguerla dalla firma di Zorro.

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Nella sua traduzione giornalistica quotidiana, la semiologia diventa allusione, senza tuttavia mai pervenire all’oggetto, al segno che pretende di restituire, raccontare, spiegare. Così come in Italia si contano 60 milioni di allenatori di calcio, ultimamente anche 60 milioni di virologi, abbiamo ora contezza di una altrettanto ampia categoria di semiologi di complemento. I commenti, le chiose, il sottotesto sul parka di Putin, indossato durante la manifestazione allo stadio per galvanizzare il suo “popolo”, ne sono un esempio recente probante. Il commento principe su quell’indumento così avanza: “Putin e la giacca italiana di Loro Piana che vale un milione e mezzo di rubli (circa 13mila euro). Lo zar russo si presenta con un piumino blu scelto non a caso, visto che maschera il giubbotto antiproiettile, e un maglione dolcevita. Un vero e proprio show all'americana. È quello andato in scena a Mosca, nello stadio Luzniki, emergono sempre più dettagli. Alcuni curiosi, come quello della giacca di Loro Piana (brand italiano di Vercelli)”.

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Anche le ripetizioni, le ridondanze in queste cronache sono a loro volta segni. Cosa penserebbe di questa prosa para-analitica il gigante della semiologia dello scorso secolo, Roland Barthes, che nei suoi saggi, fra l’altro, ha indagato il cibo finto che appare in forma di menu visivo nelle vetrine dei ristoranti cinesi, il linguaggio del wrestling, il linguaggio dell’amore e perfino l’immagine degli antichi romani al cinema, rilevando le acconciature colme di riccioli fin sulla fronte, quasi che nell’età di Cesare e Pompeo non esistesse la calvizie. Più convintamente, i semiologi improvvisati dei nostri media, accanto al parka, suggeriscono interpretazioni della prossemica di Putin, la sua gestualità diventa subito “punctum” di attenzione. Che vorrà dire il suo scuotere una sola spalla o l’accostare la mano al bordo della scrivania? Segni messi in fila quasi a restituire la sostanza del presente microstorico: ancora il parka, il referente del suo costo, indicato in opposizione alle modeste giacche a vento, i berretti di lana dei profughi, ai peluche, parte del bagaglio dei bambini insieme a trolley e zainetti. L’epica tragica minuta accostata alla citazione a margine della memoria storica: Babi Yar, dove i nazisti e i collaborazionisti ucraini massacrarono trentamila ebrei della vicina Kiev.

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Così il poeta Evtušenko: “Su Babi Yar storniscono le erbacce. Tutto qui urla il silenzio, e sento la mia testa nuda impallidire lentamente / E sono me stesso / Un immenso grido silenzioso / Sulle miglia e migliaia di morti sepolti”. Shostakovic l’avrebbe inserito nella sua Sinfonia n°13. Osa invece il semiologo in servizio permanente effettivo di Avvenire: “Citare la frase ‘Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici’, meglio, segnala l’arcivescovo di Chieti-Vasto, Bruno Forte, teologo: “È un’autentica bestemmia”. E Stefano Stefanini de La Stampa: “Raramente una crisi internazionale si identifica in una persona. La guerra ucraina porta invece un unico nome: Vladimir Putin”. Sembra qui di intravederne l’effigie nella t-shirt di Salvini. E ancora Nino Materi su Il Giornale: “È il linguaggio del non detto. Messaggi non verbali lanciati dal corpo. In termini scientifici si chiama ‘cinesica’ (dal greco kinesis, movimento). Gesti (involontari), che ‘parlano’ di più, e meglio, delle parole stesse”. Vengono riportate le considerazioni di Francesco Di Fant, esperto di comunicazione e linguaggio del corpo: “si nota come rimanga con le mani quasi sempre poggiate sulla scrivania, questo gesto, che potrebbe essere definito di ancoraggio per tenersi saldi in una situazione di disagio. L'unico gesto che gli sfugge è l'indice puntato mentre avverte minacciosamente gli avversari. Puntare l'indice è un gesto aggressivo che mima il gesto di minaccia con un oggetto in mano, come un bastone. Una caratteristica - questa del dito puntato - che accomuna trasversalmente nella storia quasi tutti i despoti alla vigilia o nel pieno di un conflitto bellico: da Bin Laden ad Assad, da Stalin a Tito, da Ceausescu a Mussolini”.

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Davide Frattini sul Corriere della Sera indaga l’antagonista, Zelenskij: “La barbetta ormai lasciata crescere, la maglietta verde militare con cui appare nei video”. Nella rassegna trascorsa de Il Foglio c’è Anna Zaferova, altra prova di semiologia approssimativa: “A Kiev sembra di stare dentro un film. Anzi, dentro una serie televisiva. Si chiama ‘Servo del popolo’, e racconta di un ucraino comune diventato per caso capo di Stato. L’ossessione per l’o-ne-stà è uno dei tratti che, insieme alla carriera nello spettacolo, ha fatto guadagnare a Zelenskij il titolo di ‘Grillo ucraino’. Lo votano le babushke analfabete, quelle che non leggono nemmeno la scheda elettorale, ma guardano la tv”, è l’obiezione sdegnata che si sente in molti salotti dell’intellighenzia”. Torna l’antinomia parka-piumino da bancarella. E ancora: “La città che ha fatto da set al ‘Servo del popolo’ è un mix eterogeneo di monasteri bizantini, barocco settecentesco, palazzi liberty, ingombranti monumenti staliniani e altrettanto sgraziati grattacieli nuovi di zecca, tra vialoni a otto corsie e cortiletti immersi nel verde che sembrano spuntati da una provincia gogoliana”. Su Repubblica, Concita De Gregorio, precisando che “non per fare del giornalismo emotivo”, precipita nella balistica: “Come si fa a essere equidistanti fra un missile che abbatte un ospedale e un ospedale abbattuto?” Roland Barthes che sei nei cieli, falli smettere, di più, abbattili!

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