Alonzi ad oggi conta oltre 20 milioni di clic su tutte le piattaforme e quasi 2 milioni di follower: parla ai suoi lettori dei temi del malessere mentale, della violenza di genere, della co-dipendenza relazionale. Sui social crea contenuti su psicologia e relazione, che ha riportato anche nei suoi libri come Noi, parola di tre lettere (Salani), romanzo sull'avere vent'anni in un mondo di manipolazione emotiva e relazioni tossiche. Nell'autunno 2023 è prevista l'uscita del nuovo saggio sul tema del trauma intergenerazionale. Con lei abbiamo parlato del successo dei suoi libri di divulgazione, dell’importanza della psicologia, e di come ancora tutti dovrebbero senza vergogna contattare un terapeuta. E imparare a vivere meglio.
Andare dallo psicologo è ancora un tabù? Pare che la salute mentale sia una “salute” di serie B.
Disgraziatamente vero. Vi è anche un pericolosissimo doppio standard, una dicotomia. La salute mentale è percepita solo come “malattia”, non come “salute”. Guardiamo a coloro che contattano uno psicoterapeuta o uno psichiatra come viziati, come stupidi, come deboli. Contemporaneamente giudichiamo chi è in cura come pazzo o come malato. In alcun modo riusciamo a percepire chi chiede il consulto di uno specialista, così come faremmo per qualunque altra difficoltà o disturbo somatico. Diresti mai a qualcuno con una gamba lacerata “Ma dai, aspetta, magari è stress”? Non credo.
Parli di come sia soprattutto la generazione Z a prendere consapevolezza del trauma generazionale. Come mai credi che questo non sia avvenuto prima?
La Gen Z (nati dal 1997 al 2012) è cresciuta in un tempo unico di rapida evoluzione tecnologica e di maggiore consapevolezza sociale e culturale. La loro considerazione del trauma intergenerazionale parte dal cercare un motivo per ciò che percepiscono come ingiusto e doloroso, in primis per loro stessi e poi per ciò che capita ai loro coetanei. Hanno un maggiore accesso all’informazione: con l'ascesa di internet e dei social media, la Gen Z si relaziona con una quantità di nozioni senza precedenti, comprese risorse e discussioni sulla salute mentale. Trovano, imparano ma, soprattutto, e questo non ha prezzo: condividono le loro esperienze, ricevendo sostegno nelle comunità online, scoprendo di non essere soli o “strani”. Comprendono l’importanza della salute mentale, combattono per diminuirne lo stigma. Sviluppano maggiore attenzione alle questioni di giustizia sociale, si domandano se e come i pregiudizi e le reazioni difensive che hanno caratterizzato intere generazioni possano trasmettersi, anche in relazione a razzismo, sessismo, abilismo, grassofobia, omofobia e ogni tipo di discriminazione in generale. La ricerca sul trauma intergenerazionale, inclusi i suoi effetti e il modo in cui può essere trasmesso, è relativamente recente. Le generazioni precedenti, invero, non hanno avuto accesso a queste informazioni, e non hanno sviluppato questa curiosità.
Il tema dei giovani adulti sta prendendo sempre più spazio nella nostra società, questo è anche evidente dal tuo ampissimo pubblico, che ti segui ai TED, sui social, e in libreria. Ti ritrovi in questo grande gruppo che vuole cambiare?
Come si fa a vivere – anche solo un giorno – in un mondo dove la distanza fra le persone viene dettata dal privilegio di essere nati nel “posto” giusto; dove la rappresentazione dei corpi non conformi è del tutto inesistente; dove la discussione sul riscaldamento globale e l’orrore specista che infliggiamo alla natura si riducono a chiacchiera; dove è ancora impossibile (e credetemi ci proviamo tutti i giorni) spiegare un concetto così semplice come la violenza di genere, e non provare con ogni fibra del proprio essere, ogni gesto del proprio operato, a cambiare le cose?
Questa è una generazione di luci e ombre. Cosa ne pensi dell’episodio degli youtuber TheBorderline? Trovi che dietro questi episodi di sfide estreme sul web ci sia anche una paura dell’anonimato?
Ogni singola generazione è una “generazione di luci e ombre”. Questa la stiamo osservando perché le camminiamo accanto, e quando si guardano le cose dall’interno, mentre accadono, si tende a perpetrare il cosiddetto bias della memoria: ricordiamo il passato in modo più positivo, dimenticando o minimizzando gli aspetti negativi, idealizzando le generazioni passate. Percepire le generazioni più giovani come più spericolate o corrotte di quelle passate è un fenomeno che esiste da molto tempo. Nel 1935 Horace McCoy scrive il romanzo “Non si uccidono così anche i cavalli”: dentro leggiamo di quella che oggi chiameremo “challenge” e che al tempo si chiamava “maratona di danza”. Identica nella struttura alle sfide che seguiamo (vere) su canali YouTube come quello di Mr. Beast, o che ci vengono raccontate (fiction) in serie tv come “Squid game”. Ma quelle challenge, le maratone di danza, durante la Grande Depressione negli Stati Uniti, erano un fenomeno reale. Iniziate come una forma di intrattenimento, divennero presto una forma di sfruttamento delle persone disperate che, per soldi, durante un periodo economicamente difficile, avrebbero fatto qualunque cosa. I partecipanti erano individui impoveriti che speravano di vincere premi in denaro. I concorrenti ballavano quasi continuamente, con brevi pause per riposare e mangiare, mentre il pubblico pagava per guardare. Queste maratone duravano giorni, settimane, mesi. Le condizioni erano gravi e le regole rigorose. Giovani in cerca di denaro e successo, si mettono a confronto in barba a salute fisica e mentale, davanti ad un pubblico pagante, e chi resta in piedi vince. Sounds familiar?
Viviamo un momento storico in cui chiunque può dare voce alle proprie paure e soprattutto alle proprie frustrazioni, in particolare sui social, scambiando opinioni personali per realtà fisse, senza preoccuparsi molto dei sentimenti altrui. Quanto colpa hanno i social e i media in questo processo?
I social media, e i media in generale, svolgono un ruolo significativo nel modo in cui le persone formano le loro opinioni e interagiscono tra loro. Gli aspetti che possono contribuire a questo fenomeno sono molteplici. 1. L’amplificazione: i social media danno a ciascuno la possibilità di condividere i propri pensieri e sentimenti su una scala globale. Mentre questo può essere potente in termini di connessione e condivisione di idee, amplifica paure e frustrazioni, e consente la diffusione di false informazioni e opinioni personali presentate come fatti. 2. La polarizzazione: si tendono a creare eco chambers (camere di risonanza) o filter bubbles (bolle filtranti). In queste occorrenze, le persone sono esposte principalmente a idee che rafforzano le loro opinioni preesistenti: le persone vedono le proprie opinioni come l'unica realtà corretta e non riescono a capire o rispettare le opinioni degli altri. 3. L’anonimato e la disinibizione online: la distanza percepita, che i social media forniscono, porta le persone a sentirsi libere di dire cose che non direbbero di persona, mutua comportamenti aggressivi e insensibili. 4, La velocità e il volume delle informazioni: i media digitali permettono una diffusione delle informazioni rapida e su larga scala, le persone vi reagiscono impulsivamente, condividendo informazioni senza verificarle. E, dulcis in fundo, numero cinque: la pressione del gruppo e la tendenza al desiderio di conformità. Le persone si sentono sotto pressione nel tentare di conformarsi alle opinioni popolari o dominanti, per sentirsi accolte, accettate ed evitare il confronto. I media e i social media sono strumenti e non sono intrinsecamente buoni o cattivi. L'uso che ne facciamo e come li gestiamo può determinare il loro impatto sulla società. Le competenze di alfabetizzazione mediatica, la moderazione delle piattaforme e l'educazione digitale etica sono strumenti fondamentali per mitigare questi fenomeni.
Nell'autunno 2023 è prevista l'uscita di un tuo nuovo saggio sul tema del trauma intergenerazionale, ci puoi anticipare qualcosa?
Volentieri. Dopo aver scritto “Noi, parola di tre lettere”, che è il mio primo romanzo, centinaia di migliaia di lettori si sono rivisti nelle scelte, emozioni e vicende dei protagonisti e delle loro famiglie, e mi hanno chiesto di approfondire il tema del trauma intergenerazionale anche in forma saggistica, come avevo fatto con i miei primi due libri. “Il libricino della Felicità” che spiega il senso di colpa e i suoi perché, e “Non voglio più piacere a tutti” (Antonio Vallardi Editore) che racconta i limiti che poniamo da soli nel raggiungimento dei nostri obiettivi. Con questo nuovo libro ho, quindi, voluto spiegare i meccanismi del trauma intergenerazionale: cosa lo regola, come accade, come riconoscerlo. Nel libro, in uscita per Sperling & Kupfer i primi di ottobre, parlo di questo: degli altri, che ti sembrano sempre migliori di te, più fortunati. E di te, che non riesci ad integrarti ma vorresti. Di come sia possibile che mentre gli altri trovano l’amore o il successo o il denaro, il lavoro, la scuola e persino il corpo che vuoi, tu ti senta fuori posto, incapace di essere felice e incapace di capire perché. Stai male, ma non sai perché. Sei come sei, ma non sai perché. Sono gli altri o sei tu il problema? Ti chiedi, e non sai più cosa pensare. Questo libro serve a spiegarti, a rispondere a queste domande, a mostrarti come stanno le cose, a farti vedere come invece potrebbero essere. Dentro di te ci sono ostacoli che non ti appartengono, che qualcuno ha messo lì, senza volerlo, e che continuano a farti perdere tempo, occasioni, progetti e amore. Il mio libro serve a farteli riconoscere, per liberartene e salvarti. Salvarti, per essere felice.
Nel tuo ultimo romanzo, Noi, parola di tre lettere, è protagonista la generazione senza futuro. Quando tutto appare senza un senso, o senza un futuro, a cosa ci si abbandona?
La generazione senza futuro, è quella che ha un passato che non può ricordare. Viviamo questo fenomeno orribile della cancel culture, tendiamo a sfumare i contorni, a ricreare le narrative, invece di raccontare gli orrori del passato, li mettiamo sotto il tappeto. La generazione senza futuro è la generazione figlia di genitori che non si sono presi cura della loro salute mentale, e così via via indietro a nonni, bisnonni e antenati. Non sono senza futuro perché non saranno in grado di costruirselo, anzi, bensì perché noi gli stiamo lasciando ben poco margine con il quale operare. Quando tutto appare senza un senso, senza un futuro, se non si hanno le risorse o gli strumenti o la rete sociale per creare dei valori nei quali credere, ci si abbandona all’assenza. Si fugge il dolore, ci si scosta dalla difficoltà di un mondo che non si comprende. E la peggiore cosa che possiamo fare a noi stessi non è soffrire, ma cercare a tutti i costi di evitare di soffrire.
Nel tuo ultimo romanzo si parla di una vicina molto simile a un fatto di cronaca degli ultimi giorni, quello che vede protagonista Leonardo La Russa, figlio del famoso politico, in un presunto caso di violenza sessuale.
Non esattamente ma comprendo come mai lo dici. Nel mio romanzo, in effetti, si parla del tessuto che porta a situazioni di violenza dove la promiscuità non sta nell’atto sessuale ma nel non riuscire a distinguere la vittima dal carnefice. Sia tra genitori e figli sia tra coetanei. Nello specifico: la violenza sessuale è l’unico crimine dove si mette in discussione l’integrità morale della vittima, ci pensi mai? Nella realtà che viviamo tutti i giorni si tende a isolare il caso di cronaca parlando di “mostro”, di “delitto passionale” di “esagerazione”, invece di fare informazione e puntare i riflettori sull’intera struttura patriarcale, che protegge e alimenta machismo, maschilismo, e violenza di genere sistematica, sistemica e intessuta nel nostro stesso percepire la società, la famiglia e i ruoli di genere. Nel mio romanzo tutto questo è raccontato per quello che è, fino al paradosso definitivo: le ragazze del mio libro vogliono farsi del male, e vogliono che succeda per mano dei più belli, ricchi e potenti della città, della regione, e persino del mondo intero. Per sentire di avere una possibilità in un mondo a tenuta stagna che altrimenti, per loro, risulterebbe inaccessibile. I genitori si comportano da adolescenti, i ragazzi sembrano adulti, confondendo di proposito il cinismo con la saggezza. La pressione sociale è raccontata per quella che è: il motore che spinge a correre lontano dalla realtà e smettere di sentire che, nel processo, si sta calpestando una vita. Mentre il sesso, la violenza, l’hype, lo sfarzo, il mondo dei potenti e il desiderio di farne parte sono ovunque, l’amore, nel mio libro, si può trovare solo guardando davvero nei luoghi più bui. Perché, come sanno i protagonisti del libro “L’amore è una faccenda che ha molto più a che fare con la dipendenza, che con la felicità”.
Paragoni il desiderio di piacere a tutti come a un virus che si propaga. Che sia un modo per delegare ad altri la responsabilità della nostra felicità?
Al contrario. Cerchiamo di piacere a tutti perché crediamo di non essere valevoli d’amore. Ci hanno insegnato – le nostre figure genitoriali – con le loro richieste esplicite e implicite, che dobbiamo fare per farci amare, non basta essere. Per questo ci muoviamo per tutta la vita nella costante ricerca di un collante tra noi e gli altri, di un regalo che possiamo continuare a donare, di un modo per portare tutto verso di noi, non lontano da noi. Non deleghiamo la responsabilità della felicità agli altri, anzi, ci mettiamo sulle spalle tutto il peso, in modo da credere di averne il controllo. La trasformiamo in colpa: la colpa di essere noi stessi. Da portare con vergogna, mi raccomando. Se ci tradiscono è perché non abbiamo fatto abbastanza, se ci lasciano è perché non siamo abbastanza giusti, e così all’infinito. Il risultato? Credendo che dipenda tutto da noi, che la colpa sia la nostra, abbiamo l’illusione di poter aggiustare le cose che ci sembra di aver rotto. L’altro non sappiamo nemmeno che esista, è una nostra proiezione, il vaso dentro il quale costruire la persona che crediamo un giorno (attraverso i nostri sforzi) diventerà. Spoiler: non funziona. Di questo ne parlo molto, in tutti i miei libri, in effetti.
Nel tuo saggio Non voglio più piacere a tutti, il senso di colpa è un sentimento fortissimo, preponderante. Mi è sembrata fondamentale una virtù, in grado di arginarlo, almeno un po’: l’autoironia. Si può imparare ad allenare anche questa grande qualità?
Il senso di colpa è il guinzaglio più potente del mondo. Lo usano i genitori disfunzionali, lo usano i capo uffici, lo usano i professori sbagliati, lo usano in tutte le religioni per continuare ad avere degli adepti. Quindi? Quindi lo usiamo tutti. Tutti noi siamo genitori disfunzionali, in capo a qualcun altro, insegnanti, credenti, in un modo o nell’altro. Il senso di colpa è lo strumento prediletto del nostro inconscio, gli serve per ricordarci che non dobbiamo cambiare, perché incorreremmo in pericoli che non saremmo in grado di affrontare. L’inconscio non vuole che cambi, perché se cambi non sa cosa può succederti. Sai questa è la vera ironia, la grande beffa: al tuo inconscio, del fatto che tu sita bene (nel senso di “felice)” non gliene frega nulla, a lui interessa solo che tu sopravviva. Il benessere sta a te, non a lui. Se capisci questo, capisci come osservarti e come osservare tutte le difese che ti proteggono dall’approfondire i tuoi conflitti interiori. L’autoironia è una forma di difesa, la più evoluta dell’uomo per essere precisi. La meno evoluta è la bugia, lo sapevi? Quindi, diciamo che per restare come si è, l’autoironia è la meglio freccia nella tua faretra, ma se il tuo desiderio è di stare meglio, devi mettere il desiderio di giudicarti e prenderti in giro da parte: devi allontanare la colpa di prenderti troppo sul serio che tutti ti affibbiano e accettare che NON ti stai prendendo abbastanza sul serio; non stai in effetti prendendo sul serio il tuo malessere e stai sdrammatizzando solo per sentirti meno fragile agli occhi degli altri. E, se ti prendi sul serio per un attimo, vai in terapia. Lì non ti tolgono l’autoironia, eh, però ti danno anche un sacco di altri strumenti.