A contrastare la verve rock di Simone Tomassini, stasera, all’Eat Sound Festival di Vertemate (Como) ci sarà Paolo Meneguzzi. Una sola band per due artisti che incarneranno una sfida: musica rock (Tomassini) contro musica pop (Meneguzzi). Un palco, due amici, una battaglia. Anche due solide carriere ben diverse per tempi e sviluppi. Se ieri Tomassini ci raccontava della sua idea di musica, degli esordi con Vasco e dei suoi momenti bui, oggi tocca a Paolo Meneguzzi fare avanti e indietro fra tempo e canzoni.
Qual è oggi la tua visione della musica?
La mia musica tiene conto anche delle mode e delle influenze del momento, soprattutto nell’ottica dei suoni e della produzione, che è spesso elettronica. Il mio pop è anche sperimentazione, ma sempre all’interno di un mercato che ha determinate esigenze.
Il mercato. Lo conosci bene e ti ha fatto qualche strano scherzo. Com’è andata?
La mia storia è iniziata prestissimo. In Italia nel 2003, ma già nel 1996, in Sudamerica, avevo un successo spaventoso con un repertorio molto diverso da quello con cui mi sarei accreditato qui in Italia. Da metà anni ’90, e per quasi un decennio, sono stato un autentico king in Sudamerica: successi da classifica, uno via l’altro, che però non hanno mai viaggiato oltre quella – pur vasta – area geografica. Il mio percorso assunse poi tinte paradossali quando i discografici italiani mi dissero che, per sfondare in Italia, ero “troppo latino-americano”. Cioè, un cantante pop italiano venderebbe l’anima al diavolo per conquistare il mercato sudamericano e voi pensate che possa essere un problema, per me, fare il tragitto inverso? (sorride, nda). Anch’io, forse, a quel punto, sbagliai qualche mossa. Avrei dovuto “accontentarmi” del regno sudamericano senza farmi troppe paranoie rispetto al mercato italiano, che è comunque molto più ristretto. Per uscire in Europa dovetti cambiare etichetta discografica. Se ci penso oggi… Con la Warner ero una priorità mondiale, insieme a Madonna. Con la giusta strategia avrei potuto diventare un Justin Bieber. Ma la mia famiglia, all’epoca, faticava a capire cosa stessi combinando laggiù in Sudamerica, e io avevo voglia di farmi apprezzare anche qui, mostrare a tutti di cosa ero capace.
A metà anni zero è quindi iniziata la tua carriera italiana. Una svolta.
Sì, sono iniziati i successi. Sanremo, l’Eurosong, i video, la radio e tutto il resto. Ma con uno stile completamente diverso, un’evoluzione di ciò che avevo fatto in Sudamerica.
Torni mai da quelle parti?
Certo, e riempio ancora i palazzetti senza problemi. Il mio successo, là, è molto più radicato. Un successo nato per caso, quando nel 1996 conobbi, qui in Italia, Oscar Peña, un discografico cileno che mi suggerì di mandare un mio pezzo a un festival cileno. Ero scettico, ma quel festival, in realtà, era importante: sceso dall’aereo, a Santiago, mi ritrovai dieci telecamere puntate addosso. Si rivelò un trampolino di lancio che, negli anni, mi ha portato ad essere prodotto addirittura da Ricky Martin (questo accadeva nel 2007, ma poi quell’album, “Musica”, ebbe una release anche americana nel 2009).
Nel 2010 uscì Miami, un album a cui sei rimasto affezionato. Perché?
Perché era un disco coraggioso, avanti di circa 20 anni. Un album che ho scritto proprio là, quando vivevo a Miami. Però essere “avanti”, soprattutto nello scacchiere pop italiano, non è sempre un bene. Rischi di essere equivocato. Ma devo dire che anche alcune cose fatte in Sudamerica hanno anticipato sonorità che oggi sono moneta corrente: l’elettronica, l’R&B minimale. Oggi l’autotune o le basi pop utilizzate per fare le melodie nei pezzi trap sono pratica abituale.
E il pop italiano, oggi, è dinamico o stagnante?
Mi è piaciuta una certa evoluzione che è passata per la trap. Più nei testi che nelle basi. Uno come Ghali mi sembrava interessante: parole meno banali del solito, più ficcanti rispetto a quanto girava a inizio millennio. Poi però – via internet e via social – sono arrivate una marea di autoproduzioni che credo abbiano creato un caos totale, come se uno dovesse sorbirsi un contest canoro di 8 ore filate. Dopo un po’ non ci capisci più niente... Ora permettimi un appunto sulla scena odierna, però.
Prego.
L’estate pop 2023 è deprimente. Il medium pop mi pare svilito. Vedere gente tutta tatuata che va su un palco a cantare la Disco paradise di turno mi fa tristezza. Quelle sono marchette. Il pop dev’essere anche visionario, evoluto, curato ai massimi livelli. Se fai i dovuti confronti tra un prodotto e l’altro, te ne accorgi della differenza. Il pop migliore non è dozzinale, affatto. Blanco, ad esempio, se fosse prodotto ancora meglio, potrebbe tranquillamente sfondare porte internazionali perché ha tutto ciò che serve. Su uno come lui io investirei molto di più.
Se quindi oggi dovessi fare un featuring, chi vorresti accanto a te?
Uno dei miei idoli è sempre stato Justin Timberlake. Ma anche Usher sarebbe uno con cui mi piacerebbe condividere un pezzo. E perché no, anche Miley Cyrus. Tuttavia i featuring non sono parte del mio istinto creativo. Forse preferirei produrre qualche giovane talento della Pop Music School, di cui credo ti abbia già parlato Simone.
Anche tu nessuna cover, stasera, a Vertemate?
E certo! Solo i miei successi. Canzoni che magari, oggi, non sempre la gente associa immediatamente a me, ma tutte le hit che eseguirò sono mie. Sul palco ci sarà tanta elettronica, mescolata a suoni live. E la mia voce. Perché a me piace cantare, esibirmi. Non me ne frega niente dei reality, di pagliacciate che ho rifiutato ogni volta che mi sono state proposte.
E nell’immediato futuro?
Ho prodotto un film – di cui ho fatto anche la colonna sonora – che uscirà a settembre. È possibile vederlo su starsthemovie.com. È un progetto di film che lega il concept americano di unire gli attori – possibili teen idol – ai progetti musicali, tipo appunto Miley Cyrus (Ana Montana) o Violetta (Tini). Sono molto legato ai concept pop Disney di alta qualità. O al k-pop di oggi, che partendo da un modello trash che copia il modello americano, ha finito per proporre cose stratosferiche.