Nel 1994 – vien da sorridere, a ripensarci – uscì un’edizione cd del singolo “Go” di Moby sulla quale era stato apposto uno sticker eloquente: “Questa incisione non vende auto”, recitava. Tradotto: questa musica non è nata per fare pubblicità. Fa ancor più sorridere ripensare al fatto che Moby medesimo, nel giro di due anni, avrebbe cambiato la sua posizione sulla relazione musica-marketing (la sua “God moving over the face of waters” sarebbe stata utilizzata per promuovere un nuovo modello della Rover). Negli anni successivi, il problema non si sarebbe più posto, né per Moby né per chiunque altro: che la pubblicità, pagando tanto, attinga pure a piene mani dagli sterminati cataloghi musicali controllati (soprattutto) dalle major. A rivoluzione compiuta, il meno turbato e il più audace, in questa nuova ottica, si è rivelato il nostro Fedez, cinico e pragmatico nel constatare – senza paraocchi ideali tuttavia essenziali per sperare in un mondo migliore – quanto la relazione fra pop music e prodotti commerciali fosse solo una realtà da sfruttare. C’era da prenderne atto, lucidamente, con la testa sgombra da cavilli ideali. Dopo che tanti artisti hanno visto decollare la loro carriera grazie allo stritolante abbraccio di uno spot, perché – avrà pensato Fedez – la pop music dovrebbe ritenersi più pura del prodotto che spinge? (con argomentazioni simili sconfisse platealmente Dikele Distefano, che, durante l’ormai celebre intervista per Esse Magazine, insisteva irritante che Fedez fosse un traditore del verbo hip hop e non, come Fedez stesso sosteneva, uno spietato poppettaro).
Tutto per dire che non c’è da sorprendersi se “Disco paradise”, nuovo tormentone estivo che vede assieme Fedez, Articolo 31 e Annalisa, sia anche il brano che sostiene la nuova campagna pubblicitaria del Cornetto Algida.
“Disco paradise” è un mostriciattolo che vivrà e prospererà lungo il bordo di una piscina, fuori da un bar di provincia, sulla spiaggia di una Romagna indaffarata a rilanciarsi. Laddove, insomma, la critica sta a zero e la voglia di viaggiare per tre minuti a cavallo di un brano che profumi di “svago & salsedine” sta a mille. E allora eccola qua, “Disco paradise”: ci si sono messi in sei, o forse anche più, per partorire questo pezzo di pop-house leggermente “discofied” dotato di un ritornello ultra-catchy. L’ennesimo divertente equilibrismo, l’ennesimo tentativo di cacciare tutto dentro: la melodia giusta, l’ignoranza un po’ smargiassa, un briciolo di coolness. Per arrivare proprio a tutti, nessuno escluso.
Fedez, in questa occasione, è il collante fra J-Ax e Annalisa; J-Jad fa il suo ma la base è obbligatoriamente poco personale. Deve piacere a tutti, ricordiamocelo; questo il diktat sotteso a ogni tormentone degno di tal nome. E in questo caso, che “Disco paradise” piaccia, lo impone anche Algida.
Nel pot-pourri di bassi, finti scratch e versi cialtroni, J-Ax fa la parte dello zio ignorante (“non ho cultura, la mia gente non sa chi è Neruda”) e qualunquista (“come tutti gli italiani all’estero l’anno prossimo non voterò”) che sporca il fighettismo di certe serate o certi ambienti (“…con il degrado come special guest”, “…in ciabatte faccio il red carpet”), Fedez tiene tutti uniti e Annalisa, a cui è affidato il guizzo decisivo nel ritornello, si produce in una performance da diva pop anni ‘60 in cui canta di “stonare Battisti”. Materia per i bagnasciuga di tutta Italia, per un’evasione cheap (“bolle di sapone, sotto il tuo balcone”) che non chiede né scusa né permesso. Nel nome di quel rapporto osmotico marketing-canzone che Fedez ha colto alla perfezione. Tanto da farne il centro di canzoni soprattutto funzionali. Con la stessa scadenza del prodotto che promuovono.