Altro che settimana della moda di Milano: questa è la Garbatella Melons Week. Sì, perché è uscito per Rizzoli “Io sono Giorgia” e la figlia attualmente più illustre del quartiere romano reso noto al grande pubblico dai Cesaroni, la Meloni, è praticamente ovunque, tra interviste, annunci e inserzioni. Tutti i media ne parlano, molti – tra anticipazioni e polemiche – ne hanno parlato prima che il volume fosse pubblicato e anche chi si è messo in testa di boicottare la faccenda (come la libraia che ha annunciato che non venderà l’autobiografia della leader di Fratelli d’Italia) in realtà ha contribuito al battage pubblicitario. Pochi però hanno parlato del libro in sé: proviamo quindi a vedere cosa racchiude di potenzialmente interessante.
Per prima cosa il testo contiene un tentativo di risposta alla domanda che si sarà posto chiunque abbia vissuto almeno qualche anno dell’epoca in cui i libri erano una cosa seria: com’è possibile che uno come Woody Allen per scrivere e far uscire la propria autobiografia abbia atteso di avere 85 anni (ed era Woody Allen. E “qualcuno” si è pure rifiutato di pubblicarla), mentre la Meloni dal medio dei suoi 44 anni e di un curriculum politico ragguardevole ma tutto sommato ordinario ritiene opportuno somministrarci 336 pagine di sé?
Giorgia (al contrario di molti altri che, comunque la si pensi, rispetto a lei sono oggettivamente meno meritevoli di un posto in libreria) dimostra perlomeno di essersi posta il problema: “Già mi pare di leggere la critica. «La Meloni si è messa a scrivere la sua biografia a poco più di quarant’anni, deve essersi montata parecchio la testa». […] Queste pagine non sono neanche un’autobiografia, in fondo, dato che spero di non morire domani e le autobiografie hanno più senso verso la fine del proprio cammino su questa terra. Questo libro è un modo per fissare chi sono e in cosa credo, qui e ora”.
Dopodiché la leader di Fdi inizia parlando di “Io sono Giorgia”, nel senso del brano pseudomusicale ricavato dal suo discorso dell’ottobre 2019 in piazza San Giovanni a Roma che terminava enfaticamente con “Io sono Giorgia. Sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana. Non me lo toglierete”: “Passò qualche giorno – scrive nell’introduzione – e sul telefono cominciò ad arrivarmi da più parti un remix di quel mio discorso. […] E MEM & J, due giovani dj milanesi, avevano remixato le mie parole con una base da discoteca. Lo avevano fatto, ovviamente, con l’intento di rovesciarne il contenuto e fare satira, in modo da ridicolizzarne il messaggio. Ma le cose non andarono così. Il pezzo era troppo buono, troppo ballabile, e per certi versi troppo rivoluzionario, nonostante avesse un contenuto politico. Insomma, in poche settimane arrivò ovunque, si cominciò a ballare in tutte le discoteche, e vinse addirittura un disco d’oro, facendomi, tra le altre cose, coronare il mio sogno più segreto: essere una cantante”.
Se finisse così, sarebbe game, set and match Giorgia. Invece il libro continua. È appena cominciato. E subito dopo arriva un passaggio che avrebbe perlomeno bisogno di qualche chiarimento: “La verità è che io non sarei nemmeno dovuta nascere. Quando rimase incinta, [mia madre] Anna aveva ventitré anni, una figlia di un anno e mezzo e un compagno – mio padre – con cui non andava più d’accordo e che, da tempo, aveva le valigie pronte per andarsene lontano. Una famiglia ferita. Mia madre era una donna caparbia, uno spirito libero. Eppure, l’avevano quasi convinta che non avesse senso mettere al mondo un’altra bambina in quella situazione. Ricordo quando me l’ha confessato, e ricordo il tempo che ci è voluto a digerire quel sasso. […] La mattina degli esami clinici che precedono l’interruzione di gravidanza si sveglia, rimane digiuna e si incammina verso il laboratorio. A questo punto, mi ha sempre raccontato, si ferma proprio davanti al portone, esita, vacilla. Non entra. Si chiede: è davvero una mia scelta – rinunciare a essere madre ancora una volta? La sua risposta è puro istinto: no, non voglio rinunciare, non voglio abortire. Mia figlia avrà una sorella. È una mattina di primavera. C’è un’aria dolce e pulita. Sente di aver preso la decisione giusta. Adesso deve solo ratificarla, in qualche modo. In qualsiasi modo... Sul marciapiede opposto scorge un bar, attraversa la strada ed entra. «Buongiorno. Un cappuccino e un cornetto». Digiuno infranto, analisi boicottate, interruzione di gravidanza dissolta in una bolla di sapone. A quella colazione, a mia madre, alla sua ostinata scelta controvento, devo ogni cosa”.
Al di là del fatto che purtroppo per convincere una ragazza o una donna a non abortire di solito non bastano un cappuccino e un cornetto, la domanda è: può (e in tal caso come) questo racconto essere compatibile con il fatto che, mentre Giorgia Meloni è nata il 15 gennaio 1977 (e dunque l’interruzione volontaria di gravidanza in questione sarebbe potuta avvenire al massimo a metà del 1976, come dimostra anche il riferimento a “una mattina di primavera”), in Italia l’aborto è divenuto legale solo il 22 maggio 1978 (ossia circa due anni dopo l’episodio raccontato, che comprende anche il riferimento a “esami clinici che precedono l’interruzione di gravidanza”)?
Un altro passaggio che per Giorgia potrebbe rivelarsi potenzialmente controproducente dal punto di vista politico riguarda l’assenza del padre: “Quando mia madre fu dimessa dall’ospedale dopo il parto, lui non ci venne neppure a prendere. Insomma, non era esattamente il prototipo del compagno ideale... Quando io ero ancora molto piccola, decise di partire per le Canarie su una barca di nome Cavallo pazzo. Prese il largo e svanì dal nostro orizzonte. Non ricordo il giorno in cui sparì. Semplicemente non ricordo di aver mai vissuto con lui”. Sostanzialmente senza un padre, dunque non in una “famiglia tradizionale”, Giorgia “a 21 anni viene eletta consigliere della Provincia di Roma. A 29 diventa giornalista professionista, viene eletta deputato e nella XV legislatura ricopre la carica di vicepresidente della Camera. Detiene il record di ministro più giovane nella storia repubblicana: nel 2008, infatti, a 31 anni assume l’incarico di ministro della gioventù. Il 21 dicembre 2012 fonda Fratelli d’Italia, di cui è presidente nazionale e che oggi si attesta quale terzo partito italiano. Il 28 settembre 2020 è eletta presidente dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr Party), una delle famiglie politiche più importanti d’Europa e che riunisce oltre 40 partiti europei ed extraeuropei. È l’unica donna leader sia di un partito politico europeo che di un partito italiano”.
Il tutto potrebbe essere interpretato come una dimostrazione del fatto che non sia per forza necessaria una “famiglia tradizionale” per crescere dei figli capaci di districarsi egregiamente tra le difficoltà del mondo. È Giorgia stessa a riconoscerlo: “Nonostante l’assenza di mio padre, avevo una famiglia che mi dava tutto l’amore di cui avevo bisogno. Lo dico perché, mentre difendo la famiglia naturale fondata sul matrimonio – credo che lo Stato debba incentivare la forma di unione più solida possibile, proprio guardando ai figli –, sono testimone di come, anche in una famiglia nella quale una delle due figure genitoriali viene meno, si possa crescere perfettamente felici, grazie al sacrificio di chi si sobbarca questa responsabilità”.
In questo quadro rientra anche la circostanza che Giorgia stessa abbia una figlia ma non sia sposata: “Per quei fulgidi pensatori progressisti, per quelle donne moderne e liberal non avevo il diritto di annunciare che sarei diventata madre a una manifestazione in difesa della famiglia solo ed esclusivamente perché non ero sposata. Ho sentito dire molto spesso questa stupidaggine. Se non sei sposato non puoi difendere la famiglia naturale fondata sul matrimonio. Un po’ come dire che se sei giovane non puoi avere a cuore il problema degli anziani, o che se sei umano non puoi occuparti del benessere degli animali”. Al lettore il giudizio riguardo al fatto che si tratti o meno di un’argomentazione convincente.
Giorgia dice di essere stata bullizzata: “Anch’io sono stata vittima di bullismo, e sono etero. Il bullismo, per ragioni disparate, è un’esperienza capitata a molti, in maniera più o meno grave. […] Il bullismo, per me, è stato durissimo mentre lo subivo, ma devo anche dire che mi ha dato la determinazione necessaria per uscire dalla mia condizione di facile bersaglio. Ho ricordi nitidi. Un giorno ero in spiaggia […]. Alcuni ragazzi più grandi stavano giocando a pallavolo, e io chiesi di potermi unire a loro. Ma quelli, urlando, mi risposero: «A cicciona! Te nun poi giocà» e mi tirarono una pallonata in faccia. Lì per lì volevo morire. […] A distanza di anni ringrazio quei cafoni. Loro per primi mi hanno insegnato che i nemici sono utili. Uno sprone a fare cose che altrimenti pensi di poter rimandare, a superare i tuoi limiti e correggere i tuoi errori”.
Bullizzata ma, a quanto pare, non discriminata: “Sono una donna, ma confesso che in tutta la mia storia politica non mi sono mai sentita davvero discriminata. Intendiamoci: ho certamente dovuto affrontare anche io atteggiamenti di diffidenza, e mi è capitato spesso di sentire addosso sguardi che dicevano: «Adesso vediamo un po’ questa come se la cava». Al fatto di essere donna, peraltro, si aggiungevano anche la giovane età e l’aver scelto di fare politica a destra, dove – secondo un odioso e falso pregiudizio radical chic – sono tutti inadeguati quando non impresentabili. Ma, ripensandoci, superare le aspettative di chi avevo di fronte è stato meno difficile del previsto. Alla fine, tra il serio e il faceto, ho fatto mia la massima che fu di Charlotte Whitton, sindaco di Ottawa negli anni Cinquanta: «Le donne devono fare qualunque cosa due volte meglio degli uomini per essere giudicate brave la metà. Per fortuna non è difficile». Chissà cosa succederebbe se un uomo politico oggi citasse in un suo libro o in un suo post, che so, anche solo un passaggio de “L’arte di trattare le donne” di un gigante del pensiero come Arthur Schopenhauer.
Gli uomini saranno anche scarsi, ma Giorgia ha dovuto comunque faticare: “Sono una donna, e non avevo il physique du rôle per guidare i giovani militanti di destra, in gran parte maschi. […] Ho sempre avuto chiaro che il mio essere una ragazza bionda e minuta poteva essere un ostacolo, un elemento di debolezza. La cosa però non mi ha fermato: ho semplicemente dovuto dimostrare più coraggio e, qualche volta, ho capito che sarebbe stato utile far ricorso persino a una certa dose di follia. Mi ha aiutato non poco il timbro di voce potente che mi ritrovo. Ha compensato l’aspetto, mi ha reso facilmente riconoscibile. Qualche tempo fa Giuseppe Conte (di cui verso la fine del libro riferisce che è «anche detto Barbapapà, perché esattamente come il cartone animato della mia infanzia è in grado di assumere qualsiasi forma in base a ciò che gli viene richiesto dalla convenienza del momento»), durante la telefonata in cui cercava di convincermi a partecipare all’inutile passerella degli stati generali a Villa Pamphilj, dopo la prima ondata della pandemia, confessò di invidiarmi la voce, lui che in aula – per il timbro più roco e i toni vellutati – a volte stentava a imporsi”.
Gli uomini saranno anche scarsi, ma per Giorgia a quanto pare Rula Jebreal lo è di più: “L’accusa di razzismo mi perseguita dal primo giorno. Te la strillano in faccia per tapparti la bocca e chiudere il discorso prima ancora che inizi; insieme a «fascista». […] Campionessa di questa strategia è Rula Jebreal, la giornalista palestinese con cittadinanza israeliana e italiana che vediamo spesso pontificare nei nostri programmi. Non c’è confronto che abbia fatto con lei nel quale, a un certo punto, non se ne sia uscita con questa brillante affermazione: «Mi rendo conto che è dura guardare una donna di colore come me...». Una volta sbottai e, rivolta al pubblico, dissi: «Ma ’sta pazza ce l’ha con me?». Non era tattica, ero sinceramente basita da quell’accusa. Non solo perché […] non c’è nulla di razzista in me, ma perché io ho un’immagine di Rula Jebreal decisamente diversa da quella che lei, per non doversi misurare ad armi pari con me, mi accusa di avere. Mi sono trovata in difficoltà con la Jebreal, lo ammetto. Ma non per il colore della sua pelle. Mi sono trovata in difficoltà perché non è facile tentare di fare un discorso serio con qualcuno così scarso. Io in Rula Jebreal vedo qualcosa di molto diverso dalla vittima che lei vorrebbe essere. Una bellissima donna, ben inserita nel circuito dell’élite finanziaria – e probabilmente per questo così considerata a livello mediatico –, ma purtroppo non in grado di argomentare in un dibattito di un certo livello”.
Giorgia rigetta ogni accusa di razzismo: “Solo una persona stupida può essere razzista, e io non mi considero affatto una persona stupida, e non lo sono. Aggiungo che non sono una persona facile all’odio, figuriamoci se potrei odiare qualcuno per i suoi tratti fisici, colore della pelle compreso. Piuttosto, l’odio l’ho sentito addosso, sulla mia di pelle, sin da quando ero ragazza, per le idee che manifestavo”.
Giorgia combatte la barbarie: “Agli occhi del pensiero unico dominanteio sono una bigotta. Un’impresentabile oscurantista, che si aggira minacciosa nel tentativo di mettere al rogo chiunque voglia favorire il progresso. Intendendosi, per «progresso», questioni come la teoria gender, l’utero in affitto o l’aborto al nono mese. Eh sì, perché io combatto queste pratiche. Non perché sia contraria al progresso, ma per la ragione diametralmente opposta: perché combatto la barbarie. E non lo faccio partendo da un approccio confessionale, anzi. Certo, credo in Dio, ma non ho mai fatto determinate battaglie per dogma religioso, o nel tentativo disperato di accaparrarmi le simpatie della Chiesa e dei fedeli, ammesso che – dopo la fine della Democrazia Cristiana – esista ancora, in Italia, un blocco elettorale cattolico. Conduco queste battaglie per convinzione, per laico buon senso”.
A Giorgia lo sport ha cambiato la vita: “Da ragazza ero quasi sempre sovrappeso, fumavo e lo stress pareva spesso prendere il sopravvento. Poi ho cominciato ad allenarmi, con costanza e tenacia, e a un certo punto mi sono resa conto che non potevo più farne a meno. Lo sport, qualunque sport io faccia – e ne faccio molti: corsa, bike, crossfit, pilates, nuoto, ora anche paddle –, è diventato la mia personale dipendenza. E non lo faccio solo per il fisico, ma soprattutto per la mente. Se mi fermo mi trasformo in una specie di pentola a pressione, perché ho bisogno delle endorfine che lo sport libera nel mio organismo. E ho bisogno della disciplina che mi ha insegnato ad avere”.
A Giorgia però sta cambiando la vita anche la dittatura del politicamente corretto: “Viviamo in un tempo folle nel quale si profila una dittatura nuova, impalpabile; un’intolleranza imposta attraverso il massiccio potere della Tecnica e del controllo dell’immaginario. Il «politicamente corretto» imperversa e detta le proprie leggi assurde: dalle ridicole imposizioni di burocrati progressisti che vogliono cancellare la naturale appartenenza genitoriale scagliandosi sui termini «padre» e «madre»; passando per i figli di papà travestiti da rivoluzionari urbani che distruggono le statue che ricordano eroi di guerra, memorie di nazioni; arrivando alla rilettura censoria di favole, racconti per bambini, cartoni animati, film passati sotto la censura della psico-polizia del pensiero unico”.
Giorgia ha “una sfortuna mondiale con le vacanze”: “Probabilmente il mio karma ritiene che il mio compito sia lavorare, sempre e comunque, senza soluzione di continuità, perché sta di fatto che ogni volta che provo a prendermi una pausa succede qualche tragedia, o qualche casino. […] Quando decisi di prendermi qualche giorno per visitare Londra, l’Italia fu colpita dal terribile attentato di Nassiriya. […] Quando [il mio compagno] Andrea mi regalò un fine settimana a Parigi per esaudire il mio desiderio di vedere l’enorme mercato di Natale che viene allestito ogni anno agli Champs-Élysées (io sono un’appassionata di mercatini di Natale) ci fu l’attentato islamista del Bataclan, e mi ritrovai praticamente a fare il corrispondente di quella tragedia. Lo scorso anno, con un’estate già tutta sacrificata alla campagna elettorale (si votava in sette regioni il 20 settembre), mi presi la libertà di una settimana nel Sud della Sardegna con un piccolo gruppo di amici, ma il giorno prima di partire ricoverarono d’urgenza mia madre che rischiava di morire. Ne potrei raccontare altre, ma non lo farò, per paura che diciate che porto iella. Posso dire però che un mio amico che lavorava all’unità di crisi del ministero degli esteri a un certo punto, in luglio, mi chiamò e mi disse: «Giò, dove vai in vacanza quest’anno, che così organizzo i rinforzi?». Scherzava, ma neanche troppo”. In verità poi Giorgia racconta anche il caso dell’agosto 2019, quello delle (teoriche) vacanze in Messico, con obiettivo immersioni nello Yucatán (Giorgia ha il brevetto da sub) per coronare il sogno di vedere gli squali balena: “Presi un volo Roma-New York. Neanche a farlo apposta, appena mi accomodai sul sedile dell’aereo Ginevra, seduta accanto a me, mi guardò e mi disse: «Mamma, ma perché tu mi lasci sempre sola?». […] Dormii non più di un paio d’ore, e quando mi svegliai notai che il telefono era strapieno di messaggi. Avevo attivato il wi-fi, disponibile sui voli intercontinentali, e quel pullulare di chat mi sembrò molto sospetto. […] Il governo Conte stava cadendo. Proprio in quel momento. Non mesi prima come avrebbe meritato per la sua inconcludenza, non di lì a quindici giorni quando sarei tornata, ma proprio il giorno in cui ero partita con la mia famiglia. Lo ammetto, ho pianto su quell’aereo. Di un pianto isterico che tradiva la stanchezza accumulata e il senso di colpa verso la mia bambina, che avrebbe dovuto rinunciare ancora una volta alla sua mamma. Per farla breve, in Messico non ci sono mai arrivata. Gli squali balena rimangono ancora una chimera e quell’agosto l’ho passato tra casa mia e le consultazioni al Quirinale. Manco a farlo apposta, convocate proprio nel giorno in cui era prenotata la famosa immersione”.
Però Giorgia non molla e non esclude ripercussioni personali più gravi di una vacanza saltata: “L’ho messo in conto e ho deciso di schierarmi lo stesso sul campo di battaglia. Come nel Medioevo faceva chi combatteva in prima fila sapendo che poteva essere il primo a cadere, colpito da un dardo, o come faceva chi durante la Grande Guerra avanzava pregando Dio che il cannone lo schivasse. Oggi dardi e cannoni non si usano più, i metodi per colpirti sono molto più subdoli e sofisticati. Ho messo in conto anche questo, ma non diserterò. È la guerra dei nostri tempi, e io sono un soldato”. Una donna in divisa che parla di sé al maschile. Non ditelo alla Murgia.