Ernia, all’anagrafe Matteo Professione, classe 1993, torna a tre anni da Io Non Ho Paura con il disco più intimo della sua carriera. Per Soldi e Per Amo (fuori il 19 settembre) non è solo un titolo a effetto, ma un concetto esistenziale. Dodici tracce, prodotte e dirette artisticamente da Charlie Charles, con dentro le voci più rappresentative dell’hip hop: Marracash, Club Dogo, Kid Yugi e Madame. Ed è un disco che fotografa il delicato passaggio dei trent’anni, quando i sogni e le bravate di gioventù lasciano spazio a nuove convinzioni. Proprio come in Le consapevolezze ultime di Aldo Busi, pamphlet corrosivo e autobiografico del 2018, anche qui si tratta di guardarsi allo specchio e prendere atto di quello che rimane, tra illusioni perdute, rancori, gratitudine e una società che sembra brancolare nel buio (e negli interessi personali). Anche musicalmente ha scelto la via dello spoglio: produzioni all’osso, spesso solo piano e voce, atmosfere lievi e scenografiche che restano sempre un passo indietro ai testi. Spiccano, in questo modo, gli strumenti tradizionali, come il pianoforte e la chitarra, che donano un respiro cantautorale a un disco rap che vuole essere confessione e autocritica ragionata più che ostentazione.

Come Busi, che nella sua cena mondana raccontava il vuoto morale delle élite, Ernia non risparmia stoccate alla scena rap e ai colleghi. In Mi ricordo attacca: “Quante cose son cambiate / Se penso a noi più giovani / C’è differenza tra sentire un fuoco dentro ed esser dei piromani / Amici, voi questo volevate? / Essere arroganti e nominare l’arte con cui vi giustificate / Non credo”. E c’è un disincanto che richiama quello di Aldo Busi in Le consapevolezze ultime, quando smonta dall’interno il contenitore (vuoto) di certi palazzi (o certi palchi?) che generano solo chiacchiericcio: “Sognavamo un giorno, e adesso il giorno è ora / Ma ci vedo tutti tristi e la ricchezza non consola”. In Figlio di con i Club Dogo, pezzo politicamente scorretto, esibisce invece i muscoli che si è formato sulla strada (“all’imprinting non si sfugge”), sapendo che è inutile nascondere di essere cresciuto “un gran figlio di puttana / e ci vedo anche del merito”. Qui usa la maschera della provocazione per parlare di identità e riscatto, tanto da arrivare a sostenere: "Letteratura lo sarò / Puttane accendono un braciere è la mia luna e i falò”. Street credibility e cultura vanno a formare una sorta di nuova slam poetry.

Il disco però non è solo rabbia. È soprattutto nostalgia e ferite. Il gioco del silenzio ha la malinconia di una telefonata mai fatta: “Io l’ho imparato col tempo / Il tuo gioco del silenzio / Non dire niente parlami, spiegati che capisca / Almeno litighiamo che sto silenzio finisca”. In Fellini con Kid Yugi l’attacco torna duro: “Mi stan sul cazzo attori, Porsche, modelle, snob e cantanti / Fra più che il disco dell’anno il tuo sembra il disco degli altri / Non può salvarti un bracciale Cartier /Non vai più lontano se guidi una Coupé / Mangia finché c’è però ricordati che un giorno morirà pure il re”. È un’altra denuncia, che sembra dialogare con la cena di Busi: l’artista messo lì come intrattenitore, il lusso come spettacolo da consumare mentre fuori brucia la vita vera. La parte più intima arriva in Per i loro occhi, dove racconta il rapporto complesso con i genitori: “Vorrei che i miei sapessero dirmi siam fieri / Lo so che ora lo sono ma non sanno raccontarlo”. È il bambino che non sentiva mai un “bravo” a casa, costretto a interpretare l’amore, a invidiare gli altri. Richiama la stessa consapevolezza amara che Busi esprime nel suo libro, quando riflette sul tempo che passa e sugli abbagli della giovinezza: il passato e l’imprinting incidono in modo indelebile. Ancora, i momenti da ninna nanna come in Per te, un valzer al piano in cui sembra parlare al sé bambino: “Tu ti senti solo / E a volte un po’ lo sei / Ma quando prendi il volo / Diventi come vorrei”. E c’è poi la crudezza di Da denuncia con Marracash, che infila il suo solito scioglilingua (“Barona la mia Azkaban, ora è il mio Alcazar / Pagato come Alcaraz, fuga da Alcatraz”), mentre Ernia si chiede cosa avrebbe fatto senza il rap (o se avesse finito l’università?).

Con Madame, altro feat. riuscito, raggiunge la vetta politica: “Perché si investe in guerra e non in sanità / Perché chi studia anni all’università / Uscito deve chiedersi se basterà”. E la critica sociale non risparmia nessuno: attacca a Spotify (“Perché prendo qualche centesimo dai dischi”), ribadisce la laicità mancata dello Stato (“Perché dentro le scuole stanno i crocifissi”), distrugge l’odio per gli immigrati mascherato da fede. Con Madame, in questo tourbillon di invettive, che ricama un ritornello quasi mistico: “Se il mondo non cambia cambio io / Se non guardi tu mi sporgo io”. Anche in questo caso sembra avvicinarsi alla furia etica di Busi, che nella sua cena elitaria richiama le tragedie collettive dei migranti morti in mare e obbliga i convitati a guardare. Il cerchio si chiude con Grato, che è la morale del disco: “Ragazzino ascolta chi il sentiero lo ha già tracciato / Se vuoi tutto ti do un trucco che ho imparato: sii grato”. È la consapevolezza ultima di Ernia: riconoscere i propri privilegi, ricordare chi non ce l’ha fatta, non sputare nel piatto in cui hai mangiato e difenderlo da chi vuole insozzarlo. Come Busi, che smonta le illusioni e non rinuncia a denunciare con ironia corrosiva, così Ernia in Per Soldi e Per Amore non si limita a fotografare il presente: lo scava, lo smonta, lo mette in parallelo al privato. È confessione personale e critica sociale, gratitudine e rancore, musica che lascia spazio alla parola. E se Busi alla fine diceva di voler “morire da vivo”, Ernia risponde che vivere, oggi, è già un atto politico.