La scomparsa di Libero De Rienzo continua, suo malgrado, a far discutere. Il decesso dell’attore, avvenuta a soli 44 anni il 15 luglio scorso, si è però spostata da un piano strettamente cronachistico a quello deontologico. Materia del contendere, il racconto dei motivi che ne hanno causato la morte. Da una parte testate come Repubblica o Corriere – riprese da Dagospia -, che hanno deciso di rendere noti dettagli emersi durante le indagini, come per esempio che nella casa romana dell’attore sono state rinvenute tracce di eroina. E hanno motivato il perché di questa scelta, sia in un articolo di Marco Mensurati, che in uno di Alessandro Troncino. Dall’altra, una schiera di commentatori di varia natura, che vanno dai giornalisti Luca Bottura («Ma quindi l’idea che di come è morto Libero De Rienzo non ci interessi nulla e che dovreste lasciarlo in pace non vi sfiora») a Francesca Barra («Con Libero De Rienzo si sta oltrepassando un limite che mortifica la famiglia e non (ancora) verità, viene da chiedersi a cosa servono i dettagli morbosi»), oppure il politico Mario Adinolfi («È inutile il fascicolo aperto dalla procura di Roma su Libero De Rienzo per “morte come conseguenza di altri reati”. C’è chi cerca gloria sui giornali parlando di tracce di droga. A che serve? Una volta accertato che non s’è trattato di atto violento, si lascino in pace i morti»), oppure lo sfogo dell’attore Herbert Ballerina («Ma come è possibile che il primo idiota che passa possa scrivere tutto ciò vuole? Ma giornalisti di cosa???»), fino alla serie di articoli del giornalista e critico cinematografico Boris Sollazzo, che più di tutti ha spostato la questione su un piano deontologico, come nell’ultimo articolo intitolato «Quella reazione “isterica” dei giornaloni su Libero De Rienzo».
Insomma, riducendo la questione all’osso: è giusto o no raccontare certi dettagli di come sarebbe morto (le indagini sono ancora in corso) un personaggio noto? Visto che si entra nel campo dei doveri dei giornalisti, che sono regolati dall’Ordine, ci siamo rivolti a uno dei massimi esperti in materia. Si tratta di Michele Partipilo, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, per anni presidente dell’Ordine dei giornalisti in Puglia, poi eletto nel Consiglio nazionale dove entra a far parte del Comitato esecutivo e si occupa della formazione, delle scuole di giornalismo e, fra i tanti, ha scritto anche un libro pochi anni fa di oltre 200 pagine che si intitola appunto “La deontologia del giornalista ai tempi dell'informazione digitale”.
Direttore, senza girarci troppo intorno: è giusto che i giornalisti, di fronte alla scomparsa di un personaggio noto, riportino i dettagli di cosa ne avrebbe causato la morte?
Va fatta una premessa generale. Al di là di quello che si dice, dal punto di vista deontologico è fondamentale come lo si dice. È un elemento che dobbiamo tenere sempre presente. Sono dell’opinione che non ci sia nulla che non si può raccontare, ma tutto dipende dalla maniera in cui lo si racconta. È questa la bussola che deve guidare il nostro lavoro. Nel caso specifico, entra in ballo il concetto dell’essenzialità dell’informazione, formalizzato nel 1998 quando entrò in vigore il codice di deontologia legato alla legge sulla privacy. Questo è il concetto: è lecito riferire tutti quei particolari che sono indispensabili alla comprensione del fatto.
Quindi, chi ha parlato del ritrovamento da parte degli inquirenti di tracce di eroina non è andato oltre ai doveri che rientrano nella deontologia giornalistica?
Se c’è una persona, che può essere attore, calciatore, politico o senza un ruolo pubblico, che è stata trovata morta in casa e apparentemente non ci sono spiegazioni è evidente che conoscere le cause della morte è essenziale ai fini della notizia. Aver riportato il dato che in casa fosse presente della droga mi sembra assolutamente corretto dal punto di vista deontologico. Argomentare, poi, sull’utilizzo di quella droga, inizia a farci allontanare dal concetto di essenzialità.
Chi ha contestato il racconto che è stato fatto da alcune testate giornalistiche sulla morte di De Rienzo, ha parlato anche di “violazione del segreto di indagine”.
Su questo punto bisogna fare chiarezza. Il segreto dell’indagine nasce a tutela dell’indagine stessa. Quindi è un segreto che deve essere mantenuto, là dove sia necessario mantenerlo, da parte delle forze dell’ordine, degli inquirenti e della magistratura. Il giornalista ha un ruolo completamente diverso, cioè quello di raccontare i fatti con tutti i particolari disponibili, a patto che non vada contro le regole deontologiche. E qui i paletti sono molto chiari, cioè il racconto del giornalista deve essere rispettoso delle persone. Se nel fare questo andiamo a violare un segreto di indagine, essendo certi che quell’elemento rivelato sia essenziale per la notizia, e nel fare questo non andiamo a violare la tutela di altri soggetti, non vedo quale sia il problema.
Quindi il giornalista può anche violare il segreto di indagine?
Certo, i giornalisti possono violare il segreto di indagine una volta che, sotto la loro responsabilità, siano convinto che è necessario farlo. Dopodiché andranno incontro alle sanzioni previste, ammesso che ci sia una violazione, ma avranno fatto bene il loro lavoro. Da sempre i giornalisti sono costretti a violare il segreto di indagine.
Nel caso di De Rienzo l’indagine si basa sull’ipotesi di “morte come conseguenza di altro reato”.
In questo caso siamo di fronte al concetto di essenzialità dell’informazione.
Nella sua lunga carriera, le sarà capitato di andare incontro alle reazioni di chi era emotivamente legato a un fatto di cronaca. Cosa sente di dire a chi da più parti chiede si non scrivere di certi dettagli?
Credo che sia comprensibile questa reazione. A nessuno fa piacere che la figura di un personaggio noto che amiamo o di una persona cara finisca sui giornali sotto una cattiva luce. È comprensibile, in qualsiasi circostanza. Ma dobbiamo stare attenti a un distinguo. Un conto è raccontare i fatti, un altro è oltraggiare la memoria di chi è protagonista di quei fatti. Per questo dicevo che non esistono notizie o particolari che non si possono diffondere, ma conta moltissimo il modo in cui vengono diffusi. È qui che risiedono la responsabilità e anche la capacità del giornalista.