Ieri sera si è tenuta la finale del Premio Strega, uno dei più famosi concorsi nazionali per la narrativa. Quest’anno l’evento è stato peculiare e ha visto, al posto della solita cinquina di finalisti, ben sette autori in gara per il premio: Mario Desiati con Spartiati (Einaudi), Claudio Piersanti con Quel maledetto Vronskij (Rizzoli), Marco Amerighi con Randagi (Bollati Boringhieri), Veronica Raimo con Niente di vero (Einaudi), Fabio Bacà con Nova (Adelphi), Alessandra Carati con E poi saremo salvi (Mondadori) e Veronica Galletta con Nina sull’argine (Minimum Fax).
L’evento si è svolto tra interviste e dichiarazioni, nonostante la pioggia. La conduzione è stata affidata a Geppi Cucciari, al suo umorismo e a un tono informale raramente corrisposto dai suoi interlocutori. Ad allungare il brodo, dei videoclip di lettori e lettrici in spiaggia, seduti a un tavolino per giudicare il libro dalla copertina – forse in omaggio ai diritti del lettore di Daniel Pennac, chissà – con uscite che ricordavano le interviste imbruttite (per esempio: “Ma non c’è un’immagine, è tutto in bianco e nero!” [sorride]).
La vittoria è andata con 165 voti a Marco Desiati per il suo libro sui giovani irregolari, un “romanzo sull’appartenenza e l’accettazione di sé” (così si legge nella quarta di copertina). Spartiati. Tuttavia la bottiglia storica del premio non è stata stappata, per preservarla intatta fino al ritorno in Puglia, sua regione d’origine, dove l’avrebbe aperta in onore di amici e autori corregionali scomparsi.
Umberto Saba sosteneva che i premi letterari fossero una crudeltà, soprattutto per chi non li vinceva. La sensazione che abbiamo avuto facendo un giro di chiamate tra alcune delle più importanti penne dei nostri quotidiani è stata che forse, almeno a volte, la crudeltà sia anche verso i critici letterari. In un’intervista qui su «Mow» del marzo dell’anno scorso, parlando dello Strega, la firma de «Il Giornale» Gian Paolo Serino aveva sostenuto che i premi fossero più cosa da cavalli che non da scrittori, opinione analoga a quella del collega Davide Brullo che parla di “effetto Morgana sul Tevere” e di un unico nodo fondamentale di questi eventi: i soldi.
Proprio tra i critici, da cui ci si aspetterebbe un’attenzione particolare per i titoli del momento, non abbiamo cavato un ragno dal buco. Che dico: una ragnatela dal buco, un granello di polvere, niente. Qualcuno non sapeva neanche che si fosse tenuta la manifestazione, come Antonio D’Orrico del Corriere: “Mi scusi, ma non so chi ha vinto...”. O non aveva letto il libro vincitore, come Valerio Magrelli di Repubblica: “Purtroppo non ho letto Spatriati e non ho visto nulla...”. Ancora più disinteressato Goffredo Fofi, decano della critica, che ha liquidato la kermesse prendendone le distanze: “Non mi interessa seguirla...”. Queste reazioni, quindi, ci hanno posto un interrogativo: ma quanto conta, davvero, il Premio Strega? Uno Strega senza polemiche è davvero influente?
Non bisogna scomodare Yuval Noah Harari, con il suo Sapiens, ma quando si parla dell’invenzione del gossip come snodo fondamentale della rivoluzione cognitiva decine di migliaia di anni fa, non possiamo che trovare conferma nella curva d’interesse che crolla al calare della polemica. Non sono più i tempi in cui Moravia veniva attaccato con l’accusa di aver barato, i tempi in cui lo Strega sembrava un’arena tra editori con scarso fair play, come accadeva per esempio nel 2017 nello scontro tra Neri Pozza e Mondadori. Ma anche un anno sembra tanto e ci appare lontana la bagarre dovuta alla rumorosa esclusione di Teresa Ciabatti.
In tutto questo, dove sono i libri? Se nemmeno i critici leggono più i volumi in finalissima, come possiamo davvero giudicare questi premi? Ultimamente le vittorie sono annunciate e il totostrega non solleva più i brividi di un tempo, nessun dubbio, tutto chiaro all’orizzonte. Nel 2019 Alberto Grandi paragonò su «Wired» i libri del panorama italiano ai Big Mac, prodotti seriali distribuiti a rischio zero da editori poco coraggiosi. Ma forse il problema è persino peggiore. Non si tratta solo della qualità in sé dei titoli, nonostante lo scarso interesse degli addetti ai lavori sia quanto meno un segnale dello stato di salute dei romanzi italiani più popolari; ma della totale scomparsa della letteratura dai premi. Neanche una letteratura fantasma, ma una letteratura che è solo ricordo. Certo, i vincitori potranno arrivare anche a quintuplicare le vendite, ma questo ha poco a che fare con i libri.
La sensazione è che la letteratura si sia trasferita in altri ambienti, in altri contesti, e abbia abbandonato alcuni luoghi canonici cari al club dei letterati. “I grandi premi non vengono mai dati allo scrittore, ma ai suoi lettori. Poveracci, se li meritano” diceva il Cardarelli de La solitudine del satiro di Ennio Flaiano (Adelphi 1996). Magari, Vincenzo, almeno verrebbe premiato lo sforzo del lettore. Ciò che emerge è invece l’allergia verso la fatica, prima fra tutti quella necessaria a promuovere buona letteratura senza le impalcature dello spettacolo d’intrattenimento e senza la cordata di polemiche che assicurano ai premi quel tanto di brio che il pubblico da sempre cerca.