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Madame Claude: la Jeff Bezos delle escort

  • di Giorgetta Pipitone Giorgetta Pipitone

5 aprile 2021

Madame Claude: la Jeff Bezos delle escort
Da prostituta a donna più potente di Parigi: L’ascesa e il declino di Madame Claude, la maîtresse che ha inventato le escort raccontata nel film di Sylvie Verheyde, su Netflix dal 2 Aprile

di Giorgetta Pipitone Giorgetta Pipitone

“Ci sono due cose per cui la gente sarà sempre disposta a pagare. Il cibo e il sesso. E io non ero brava a cucinare”
Prima di lei, c’erano le prostitute, le putes, negli angoli delle strade di Pigale, il quartiere a luci rosse di Parigi, alla luce dei lampioni ad aspettare i clienti.
I rapporti consumati in appartamenti bui, con la moquette sdrucita e i letti consumati e sfatti. Tutto avveniva di nascosto, in silenzio, in fretta, rimanevano la vergogna e il degrado. I protettori erano quasi sempre uomini, gretti e dalla mano pesante, le donne erano tutte puttane da sfruttare per soldi.
Anche Fernande Grudet, era una putain di Parigi, praticava in un appartamento in rue de Marignan, non lontano dagli Champs Elysées. Poi l’illuminazione imprenditoriale: diventare lei stessa una protettrice, Madame Claude, la maîtresse. Si inventa una nuova identità, non più la povera figlia di un venditore di panini ma una donna dell’alta borghesia, dal passato intrigante, figlia di un ricco imprenditore e ebrea deportata in un campo di concentramento. Compra un edificio con 12 stanze al 32 di rue de Boulainvilliers e le riempie di giovani donne “le claudettes”, tutte bellissime, alte e magre, che fa ritoccare anche chirurgicamente e le educa ad essere le perfette amanti degli uomini dell’alta società, non più prostitute ma escort. 

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La vera Madame Claude

La tariffa base è di 500 franchi per due ore, il 70% va alle ragazze più i regali: gioielli, vestiti, auto di lusso, viaggi, una vita che negli anni 70 non si sarebbero mai potute permettere da sole. Tra i clienti affezionati c’erano politici, nobili, attori, tra i più noti, Gheddafi, Gianni Agnelli, Marlon Brando, si dice che John F. Kennedy commissionò a Madame Claude per le sue notti parigine, una ragazza simile alla moglie Jacqueline.
La vita di Madame Claude è tornata alla ribalta negli ultimi giorni con il film di Sylvie Verheyde, disponibile su Netflix dal 2 Aprile, un film dall’estetica parisienne anni 70 fatto di minigonne, reggicalze e tacchi di vernice. 
Per un lungo periodo è stata la donna più potente di Parigi, aveva accordi con la mafia e con la polizia, teneva letteralmente per le mutande gli uomini più influenti dell’alta società e tutto grazie al sesso.
Si potrebbe definire quasi una femminista, dalle stanze del suo palazzo Madame Claude opera una rivoluzione silenziosa, insegna alle sue ragazze ad usare il proprio corpo ribaltando la gerarchia del dominio degli uomini, “fotterli per fotterli dall’interno”. 

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Una scena del film di Sylvie Verheyde
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Una scena del film di Sylvie Verheyde

Ma attenti a mitizzarla, non era un’eroina, Madame Claude era una cinica maîtresse degli anni 70 che sfruttava la prostituzione per guadagno anche a costo di lasciare le ragazze in preda a punizioni corporali e perversioni dei clienti.
Non è questione di capire se madame Claude fosse o meno una femminista rivoluzionaria o una donna di affari spietata, le persone reali non sono monodimensionali, contengono molteplicità e lei stessa era vittima di un sistema che l’aveva sfruttata e umiliata e da cui aveva cercato di ribellarsi sfruttandolo a suo favore. l suo declino cominciò nel ’79 quando fu condannata dal fisco a pagare 11 milioni di franchi e per evitare la galera fuggì negli USA dove sposò un barman gay per ottenere la green card. Nel 1980 in secondo tentativo come maîtresse nel Marais ma durò poco,  dopo aver scontato la seconda condanna ed essere uscita dietro cauzione morì in solitudine a 92 anni. 
Per comprendere e apprezzare fino in fondo la sua storia è quindi necessaria una sospensione del giudizio morale, l’eterna diatriba sulla legittimità dell’uso del proprio corpo come mezzo di guadagno e vivo più che mai e ancora oggi è al centro del dibattito sul riconoscimento di pieni diritti per i sex workers.

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Una scena del film di Sylvie Verheyde

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