Quando penso a Pier Paolo Pasolini, cui ho dedicato alcuni libri, ho la sensazione di essere addirittura il suo agente immobiliare. Sarà forse perché risiedo nel suo stesso quartiere romano, Monteverde Vecchio? Mi identifico insomma con chi potrebbe avergli indicato un tempo in quali abitazioni cittadine ritrovarsi infine a vivere. Via Giovanni Tagliere, civico 3, nel quartiere di Rebibbia, è la prima soluzione pronta, immediata, economica, molto approssimativa, suggerita, quando, giunto a Roma dopo avere abbandonato il Friuli insieme alla madre, sentiva necessità di un alloggio. Poco importa se povero, modestissimo, con Roma lontana, a perdita d’occhio, i primissimi anni ’50, la Festa de Noantri offriva allora perfino la possibilità di farsi ritrarre dalla bilancia-fotografica. La metropolitana, per esattezza il prolungamento della Linea B, sarebbe giunta trent’anni dopo. Su quelle mattine di piatto sbreccato che piange sulla cerata del desco, Pasolini ha consegnato versi tragici e insieme solari: “Ah, giorni di Rebibbia, che io credevo persi in una luce di necessità, e che ora so così liberi!” Anni fa, si sappia, sembrava che quel modestissimo appartamento fosse ormai destinato alla cura dei poeti, come casa d'accoglienza, pronti a intonare lodi come i seminaristi raccontati da Rimbaud in una prosa infantile, “Il cuore sotto la tonaca”. Poi più nulla. Occorre immaginare ora dieci cento mille accorati annunci immobiliari, destinati a dare d’improvviso l’allarme sentimentale, poetico: che fine farà la casetta piccolina nel misero Canada della Rebibbia di Pier Paolo Pasolini? L’idea di porre un vincolo sull’immobile, se non proprio farne un museo, tra le ipotesi ventilate, forse. In verità, qualora si fosse pensato a una soluzione museale sarebbe stato opportuno mostrarne i piccoli vani, la loro straziante nudità abitativa: il contatore della luce degli anni ‘50, il corrimano degli stessi giorni, la carta poveramente damascata da parati sopravvissuta, poche altre cose ancora, e infine l’Assenza del poeta residente, Pasolini da immaginare ormai come “forza del passato”, trascorso, trapassato, tramortito a bastonate sullo sterrato dell’Idroscalo di Ostia, Fiumara, la notte dei morti del 1975.
Paolo Conti, amico, giornalista del Corriere della Sera, a sua volta residente di Monteverde Vecchio, annuncia ora che “quella casa non poteva andare dispersa. Lì Pier Paolo Pasolini, un grande protagonista della nostra cultura, dalla letteratura al cinema al pensiero critico, ha scritto Ragazzi di vita. E questa casa vuole accendere un faro di speranza diventando un luogo aperto a tutti gli artisti, a tutti gli intellettuali del mondo che si ritroveranno a parlare, a confrontarsi, a studiare nel nome di Pasolini”. A esprimersi in maniera così apprezzabile e “civile” è in verità il benemerito produttore Pietro Valsecchi che ha acquistato all’asta la porzione interessata dell’immobile per poi donarla al ministero della Cultura: segnatamente il primo piano di via Giovanni Tagliere 3, settanta metri quadrati scarsi. Abitata da Pasolini dal 1951 al 1954 con lui Susanna, madre opprimente, per un affitto di 13.000 lire. Le ceneri di Gramsci parrebbero essere state scritte sotto quel basso soffitto. “Al ministero della Cultura avverrà la consegna formale della casa da parte di Pietro Valsecchi (che l’ha acquistata all’asta nel maggio 2022 per 170.000 euro) alla presenza del ministro Gennaro Sangiuliano e del direttore generale dei Musei…” conclude Conti precisando che “già nel 2013 il Comune di Roma progettò una Casa internazionale della Poesia, ma non se ne fece nulla”. Dapprima il via libera dell’Agenzia del Demanio, poi le parole defintive, curiali, faraoniche del ministro Sangiuliano: “Pier Paolo Pasolini è stato un grande intellettuale del Novecento, che ha scavato meglio di altri nelle contraddizioni della società italiana”. E se lo dice lui. Nel capitolato d’appalto poetico pasoliniano il luogo viene restituito con parole invece esatte: “Abitammo in una casa senza tetto e senza intonaco,/ una casa di poveri, all’estrema periferia, vicino a un carcere./ C’era un palmo di polvere d’estate, e la palude d’inverno./ Ma era l’Italia, l’Italia nuda e formicolante,/ coi suoi ragazzi, le sue donne,/ i suoi “odori di gelsomini e minestre povere”,/ i tramonti sui campi dell’Aniene, i mucchi di spazzature:/ e, quanto a me, i miei sogni integri di poesia”.
Non meno poeticamente, resta da immaginare che Gennaro Sangiuliano, d’ora in avanti, lì trascorrerà le prossime vacanze o magari, sempre d’ora in poi, tutte le estati. Magari cominciando dall’attuale, infiammata da crudeli temperature, ora che sui muraglioni di Villa Sciarra il glicine è stato infine bruciato da un sole che proprio il poeta definirebbe “beduino”. Stavo però dicendo che potrei essere l’agente immobiliare di Pasolini, così mi torna altrettanto in mente la sua seconda residenza, via Fonteiana 86, Monteverde Nuovo, il Gianicolo a un passo. Nel quaderno dei residenti, così com’era stato mostrato dalla portinaia del tempo, Gianna, che ho fatto in tempo a conoscere, figurava il nome di “Pasolini Carlo Alberto”, dunque sul contratto d’affitto c’era la sua rispettabile firma. Proprio “l’odiato” padre che si ricongiunge con la famiglia, il colonnello (anche se, triste verità, si congederà con i gradi di maggiore; modesta carriera), sempre Carlo Alberto Pasolini, di nobile lignaggio ravennate, già ufficiale di fanteria, Gianna lo ricordava fisso al bar cosiddetto “del Negro”, alcolista, gli occhi immersi nella cirrosi, Gianna aveva memoria perfino di Carlo Alberto sul letto di morte, lì nell’appartamentino: due stanze appena, un giaciglio a scomparsa per il figlio, la cucina minuscola. Era il 1953 quando il conte Carlo Alberto Pasolini dall’Onda, porta a Roma, lontano dal Friuli, la modesta mobilia per arredare le due stanze, il cucinotto, il bagno striminzito. C’è da immaginare Pier Paolo, figlio, proprio in un lettuccio a scomparsa, e una scrivania di legno autarchico destinata ai giorni del lavoro: le ricerche sulla poesia popolare, le pagine in corso d’opera di “Una vita violenta”, il suo più struggente romanzo “civile” che, fra molto altro, racconta la rivolta degli ospiti del sanatorio “Forlanini” contro lo sfruttamento salariale. Gianna raccontava ancora che, sarà stato il 1958, il nostro poeta rincasando all’alba, privo di chiavi, suonava per aver aperto il portone, e lei: “Signor Pasolini, io ho il bambino piccolo che dorme, se lei me lo sveglia come riesco poi a farlo riaddormentare?” Una poesia di Pasolini dedicata a Carlo Alberto mostra esattamente: “Ah, padre ormai non mio, padre nient’altro che padre, che vai e vieni nei sogni, quando vuoi, come un cinghiale appeso a un uncino, grigio di vino e morte… morendo nel vecchio letto matrimoniale da pochi soldi, vomitando il sangue delle viscere sui lenzuoli, viaggiandosene per una notte e un giorno in una cassa da morto verso l’inospitale Friuli di un soleggiato giorno d’inverno del cinquantanove!”
Nell’atrio, i proprietari storici dell’immobile, nel trentesimo anniversario della scomparsa del figlio dell'affittuario titolare, novembre del 2005, hanno fissato una targa destinata a ricordare che dal 1955 al 1959 Pier Paolo Pasolini ha lì abitato, seguono i versi “Com’era nuovo nel sole Monteverde Vecchio!” Se solo il condominio fosse però andato a cercare fra le “Ceneri”, sarebbero giunte altre parole, dove la strada ha invece il suo vero magnificat: “Ed ecco la mia casa, nella luce marina/ di via Fonteiana in cuore alla mattina”. Verrà poi il trasferimento a Monteverde Vecchio, tre traverse oltre: via Giacinto Carini 45, dirimpettaio dell’amico poeta Attilio Bertolucci. Sebbene abbia lasciato il quartiere nel 1961, per trasferirsi alle spalle della Chiesa di San Pietro e Paolo, mastodonte piacentiniano, Pasolini si manterrà fedele a uno sportello bancario: tra i “reperti” rinvenuti nel cruscotto della “Giulia GT” metallizzata la notte del suo assassinio all’Idroscalo di Ostia, accanto a una confezione di “Saridon”, un pacchetto di profilattici “777”, si mostrava, squinternato, anche un libretto d’assegni: Cassa di Risparmio, filiale 5 di Roma, dirimpetto proprio al suo civico di via Carini, la strada del bus “75”. Poi, chissà come, la scelta dell’Eur, chissà perché proprio all’Eur: via Eufrate 9. Nel nulla che dà le spalle alla chiesa di San Pietro e Paolo, la campagna a perdita d’occhio appena fuori dal rispettabile cancelletto. La stessa casa, anni fa, l ho trovata in vendita: il cartello dell’agenzia indicava una cifra superiore al milione di euro… Roma, via Eufrate 9, in un deserto dei Tartari, già burini, forse perfino etruschi prima che il luogo prendesse denominazione di EUR, luogo di fantasmi architettonici cari ai rapidograph del fascismo. Laggiù, in via Eufrate 9, Pasolini riceverà addirittura la visita di Pippo Baudo, che così la racconta: “Sarà stato il 1971, io mi sono meravigliato che lui avesse accettato di essere intervistato, prima aveva rinunciato all’incontro, dicendo: no, con la televisione non parlo. Appena ci siamo trovati, subito gli ho detto: maestro, grazie di farsi intervistare. E lui, di rimando: ma io non lo faccio per me, lo faccio perché lei piace molto a mia madre, e io ricordando mia madre ricordo lei, rispettando mia madre rispetto anche lei. In quel caso, il nazionalpopolare ha vinto per amore di mamma. Alla fine della registrazione però si è meravigliato perché l’intervista è venuta bene, e mi ha detto ancora: ma lei è bravo, mi ha fatto anche delle domande interessanti... Evidentemente, indubbiamente aveva un’impressione televisiva sbagliata di me, perché lui odiava la televisione e infatti poi, alla fine, ci siamo lasciati amichevolmente”.
Mi sto però dilungando. Per questa ragione risparmierò il racconto della sua villa al mare di Sabaudia, un cubo maghrebino condiviso con l’amico Alberto Moravia. E neppure della torre medievale di Chia, dove sognava di trascorrere gli ultimi anni di vita insieme a Ninetto Davoli e ai suoi familiari, farò menzione, sebbene uno scrittore pronto a trasfigurarsi in agente immobiliare dovrebbe salvare ogni dettaglio, ogni verbale di condominio. Via Giovanni Tagliere 3, dunque. Eccomi sotto la palazzina. Citofono. Aspetto che da momento all’altro, in mutande, visto il caldo belluino di questi giorni, si affacci Gennaro, sì, lui, proprio il nostro ministro della Cultura, pronto a farmi salire e raggiungerlo nel tinello improvvisato. In verità, desidero giusto capire cosa è rimasto delle tristi vestigia abitative originarie, intuisco, sopravvissute, le porte di legno, smaltate di un crema ospedaliero, lo sportellino del contatore della luce, forse un tempo già manomesso, la carta da parati damascata di un acquamarina pallido… Sangiuliano è in pigiama di maglina, girocollo, il taschino sul petto, tenuta non meno ospedaliera, da corsia, e a me resta da chiedergli se qualcuno l’ha informato sulla storia del residente che l’ha preceduto. Ora mi guarda aggiustandosi gli occhiali con composta posa mini napoleonica, e a me non resta che fare caso all’Assenza. Poi, proseguendo nell'ideale romanzo immobiliare, residenziale, mi torna in mente ciò che qualcuno, nei giorni scorsi, ha scritto sulla mia bacheca Facebook a commento di una foto di Carlo Alberto Pasolini in divisa e chepì da capitano del I° Reggimento di fanteria, il firmatario del contratto di locazione di via Fonteiana 86: “Mi sono chiesto a volte come faccia uno che rivendica il narcisismo e l'edonismo come forze benefiche a celebrare Pasolini”. Si è fatto tardi, ho fame, così viene di rivolgermi a Sangiuliano ragionando sulla cena: “Gennaro, che faccio, ordino da MacDonald’s due Cheeseburger o magari tu preferisci un Crispy McBacon?” Mentre aspetto che risponda, penso che sarebbe perfetto andare a mangiarli affacciati sul terrazzino. Quanto impiegherà il rider a raggiungerci da via Tiburtina 1150, dove si trova il MacDonald's più prossimo alla nostra, direbbe Pasolini, Dopostoria?