L’hanno chiamato Elvis perché è difficile dare un altro titolo a un film sulla più grande rockstar del Novecento americano. E Baz Luhrmann, che pensavamo dopo Il grande Gatsby avesse visto il suo momento migliore, torna grande insieme a The king. Uscito nelle sale ieri (e presentato fuori concorso al Festival di Cannes), le due ore e 40 di Elvis con Austin Butler e Tom Hanks sono il manifesto per conoscere il vero Elvis Presley. E per capire la musica, il suo vero amore, la sua vera droga, assieme al pubblico. Per decantare un artista così tanto romanzato ma di cui oggi si parla molto poco forse Luhrmann è il regista più azzeccato, con le sue mille luci e la giostra di effetti speciali che mischiano capi di Prada e cover album da Shazam, elementi capaci di sedurre le nuove generazioni e farti innamorare - sarebbe impossibile il contrario - di Elvis, Aaron, Presley.
Un artista nato e cresciuto per la melodia, per il ritmo, per la vibrazione. Che scorrono dai cori del gospel che ascoltava da bambino fino al piano bar dei locali per neri di Beale street, a Memphis, in cui andava da ragazzo. E’ da lì che nasce Elvis the pelvis, soprannominato così per via di quel suo bacino così troppo poco fermo durante le performance, dove piovevano mutandine e palpatine (Blanco come Elvis? Lol). Oltre alla musica, infatti, è il pubblico il vero grande stimolo del cantante, come narra la voce fuori campo del Colonnello Parker, interpretato da Tom Hanks. Ah già, il colonnello, o meglio l’olandese Cornelis van Kuijk, l’altro personaggio del film che, pur non essendo protagonista, è molto più di un side character. Il manager di Elvis, colui che lo ha scovato giovanissimo vicino Memphis, è infatti l’altro grande tema della lettura biografica del cantante data dal regista australiano: per Elvis, Parker è stato un padre, un manager, un prete, uno strozzino, un tentatore. Venendo dal management dello spettacolo, si autodefinisce per tutto il film un imbonitore - che poi è quello che è - e il cinismo della sua morale da money digger è il lato caratteriale più ripugnante. Ma giudizi a parte, ce ne rendiamo conto anche noi: se non fosse per quel cinismo e quella morale dei soldi, forse non avremmo mai visto Elvis Presley, The King.
Baz Luhrmann ci fa accettare ancora una volta la sad story per cui - come si sospetta di ogni carriera cinematografica o musicale - il successo derivi soltanto da un compromesso (in questo caso morale: tanti concerti, tanto pubblico, tanti soldi, ma meno famiglia e meno mamma- e infatti quando lei muore lui è disperato), ma in fin dei conti a noi va bene così, come con i cantanti di oggi: tanto vediamo solo l’aspetto superficiale. E’ il compromesso del successo, è il compromesso della grande musica, non c’è niente da fare.
Il money digging del Colonnello Parker è un metodo americano, troppo americano, ma che sta benissimo su un prodotto quale che era Elvis. E così Baz Luhrmann ce lo ha venduto, raccontandoci come la sua commercializzazione, per quanto in fondo ripudiata dall’artista, è stata la genesi stessa del suo mito.
Cantare canzoni, non riuscire a fermarsi, scatenarsi, accettare (per soldi) di rimanere a cantare nella stessa città pur di cantare come vuole lui. Questo era, in fin dei conti, Elvis Presley. Che ancheggiando ha sicuramente fatto molti soldi (e molti ne ha fatti la sua azienda), e ha permesso a lui stesso, cresciuto fra la musica gospel e il rhythm ‘n blues di Memphis, di capire che la musica fosse l’unica ascendente da seguire nella vita. Un dono di Dio, come ha detto sua madre. L’Elvis di Luhrmann la musica ce l’ha dentro, anche quando si vende al marketing più puro dei B movies di Hollywood - e infatti (spoiler) fa di tutto per tornare sui suoi passi, rigorosamente in abiti firmati Prada. La musica è Elvis e Elvis è la musica, di qualunque tipo. Basterebbe vedere una scena, l’ultima del film, per rendersene conto.