Il mito di Medusa è terribile. Il trattamento riservato alla maggior parte delle figure femminili nella mitologia greca, a dirla tutta, lo è. Violentate, uccise, abbandonate, incolpate. E Medusa - loro massima rappresentazione - è tutto insieme. Trasformata in mostro da Atena perché violentata da Poseidone nel suo tempio e poi uccisa, decapitata, e usata (da morta) come arma contro i nemici.
Così la storia si ribalta, ancora una volta, e il nostro tempo decide che Medusa non può morire. Medusa deve essere assassina del suo uccisore. Al Collect Pond Park di New York è stata recentemente posizionata una statua che la rappresenta così, a ruoli invertiti, mentre tiene in mano la testa mozzata di Perseo. È una citazione all’opera di Benvenuto Cellini che ancora oggi svetta in Piazza della Signoria, a Firenze, e allo stesso tempo un grido di ribellione femminile che porta il segno del #MeToo.
Già perché Collect Pond Park guarda dritto negli occhi la Corte Suprema di Manhattan, il luogo in cui Harvey Weinstein è stato condannato a 23 anni e il simbolo massimo della vittoria del movimento. Così, a guardare ogni giorno il luogo della giustizia, oggi c’è Medusa.
Viva, vincitrice, vendicativa. Ma noi abbiamo davvero bisogno di una Medusa che porta tra le mani la sua vendetta? È questo il massimo valore del femminismo? È questa la lotta a cui si vuole portare avanti? Vincere per? Per avere in mano una testa mozzata?
Ricordo ancora oggi una di quelle lezioni un po’ strane che si fanno di tanto in tanto a scuola, con esperti che mettono tutti in cerchio e fanno parlare di quelle cose adolescenziali che conservi con cura nel fondo dello stomaco sperando che nessuno ti faccia venire un conato per riportarle a galla. Non mi ricordo il perché di quella lezione o chi fosse la persona al centro del cerchio ma quel giorno in classe eravamo solo ragazze. Non ricordo nemmeno che fine avevano fatto i nostri compagni, magari con qualche altro esperto in qualche altra stanza scrostata della nostra scuola di provincia. Però mi ricordo, come se fosse ieri, che a ognuna venne chiesto di descrivere un momento della nostra vita in cui essere donne ci aveva messe in difficoltà.
Non ci avevano chiesto “se”, ci avevano chiesto “quando”, e tutte ne avevamo uno. Avremo avuto al massimo 15 anni, e avevamo avevamo già almeno un momento da raccontare. Che schifo. Fa quasi schifo come la storia di Medusa e il suo obbligo storico di diventare mostro dopo essere stata trasformata da vittima a colpevole.
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Ed è giusto combattere queste situazioni, costruire statue altissime - ovunque - a Collect Pond Park e pure dentro la Corte Suprema di Manhattan se fosse necessario. Mettere le bambine in cerchio e dire che Medusa non è il cattivo di questa favola, e insegnare la storia per fare paragoni, per migliorare, per capire e non commettere gli stessi errori di un passato che non ci piace più.
Ma la vendetta della Medusa di New York non aiuterà nessuno. Le femministe del #Metoo, le ragazzine sedute in cerchio a scuola e gli uomini. Già perché quando si parla di femminismo si parla di donne, donne e solo donne. Ma la parità non si combatte mostrando a un uomo seduto in un parco l’immagine di una testa mozzata, spiegando che il revisionismo della storia (o della mitologia) vuole distruggere il patriarcato con la vendetta. E che l’ucciso non è lo stupratore, o il mandante, e nemmeno chi ha trasformato la vittima in colpevole. L’ucciso è l’eroe.
Lei tiene in mano la testa di Perseo, che niente rappresenta se non il sentimento supremo di chi compatte contro la vergogna. Come se ribaltare le parti servisse a rendere quello che è sbagliato per forza giusto, in un mondo di bianco e nero, vero e falso, vecchio e nuovo.
Quindi no, non abbiamo bisogno della Medusa di New York, del suo sfregio vuoto, e tantomeno della sua vendetta.
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