L’eremita Massimo di Lampsaco, vissuto in Asia Minore nel XIII secolo, era detto “kausokalyba”, “bruciacapanne”. Ogni mattina incendiava il ricovero che si era costruito con rami e frasche, per volontà di non avere niente: niente proprietà, niente riparo, niente protezioni dal niente. Tutte le mattine l’eremita si accendeva la folgore divina da solo, e per vari anni fu considerato pazzo finché la sua santità non fu compresa da Gregorio il Sinaita che lo condusse al monte Athos. Il fuoco è la metafora sapienziale, il chiostro del fuoco sapienziale è il deserto. Nè l’uno né l’altro sono granché rassicuranti, per via di tentazioni, demoni e roveti ardenti. Non si capisce bene perché un certo tipo di scrittore, barocco (certamente), vitalista (certo ma non solo), in tanti libri sfrenatamente comico (e anche osceno) dovrebbe stare in certe regioni.
Ottavio Cappellani con il suo Il carrubo è l’unità della misura del diamante (Aboca) proprio lì sta, e ora è entrato è nella terna finalista del Campiello Natura. Cappellani (editorialista di MOW) è scrittore conosciuto e tradotto all’estero (il suo Chi è Lou Sciortino in 26 paesi, il suo Sicilian Tragedì è stato recensito da David Leavitt su un’intera pagina del New York Times) col Carrubo riporta le questioni al loro punto di caduta. Di misura, perché appunto il seme del carrubo è la misura del kerátion, del carato che si usa per determinare il peso dei diamanti. La scena è quella di un protagonista che si è ritirato in campagna e riflette sulle cose, sulla storia personale e della sua gens. La voce narrante è quella di un albero, precisamente di un pollone di carrubo sopravvissuto a un incendio doloso. Appunto, la misura, appunto, il fuoco.
Poi Cappellani da qualche anno si è ritirato sull’Etna, salvo uscirne per qualche incursione/reportage, anche per MOW, come quello nell’exclave della pubblica intelligenza denominata Salone di Torino. Ma è giusto parlare di autofiction per questo libro? No. Qui forse c’è autonarrazione, astratta e misurata, ma non c’è -lode all’Inviolato- identificazione emotiva. C’è un albero che parla e parla da albero, con una “totale e irresponsabile mancanza di timore verso l’astrazione”. Gli alberi non conoscono Freud e non riassaggiano biscotti francesi. Se parlano parlano di filosofia prima e il Carrubo non si accorge delle Sherazade sentimentali. Grazie Cappellani per aver bruciato l’autofiction, che in effetti ha rotto il caz*o e usa la scusa di Proust per ingroppare al lettore Instagram. Come ha rotto il caz*o in anticipo l’altro sdoganamento (e sdogamento) sentimentale che da un po’ esalta gli addetti ai libri, e parliamo del Romance.
Altro aspetto che rende il Carrubo originale, “un libro qualsiasi nel momento sbagliato” come ogni testo sospettabile di classicità, è che non appartiene alla tendenza “modernista”. Anche qui grazie alla distanza e a una dose di astrazione. Non c’è aderenza di lingua e cose anche in senso opposto a quello evocato prima: non c’è lingua che si frantuma per restituire un reale (solo un esempio quasi un hapax sospettabile di un filo di umorismo: il gioco di parole tra carato e carattere, “karat-tere”). Il Carrubo è un libro scritto in un italiano prensile, misurato, bilanciato. Grazie a Cappellani per aver seccato qualche timido e tumido erede di Faulkner.
E infine, ed è l’aspetto più strano e “unsettling”, almeno per lo scrivente qui, il Carrubo non è un libro post-moderno. Cappellani in altri suoi romanzi (e saggi) ha giocato con le forme di rappresentazione, ha costruito con le macerie, ha evocato tragedie comiche e commedie tragiche, ha fatto parlare i protagonisti in dialetto, è stato sfrenato nella descrizione di vizi e maledizioni contingenti e camp e trash, con tutta la plastica e l'inautenticità che ci va. La sua bibliografia è fatta di dissacrazioni tipologiche. E oggi un approccio del genere andrebbe anche bene, in epoca di quella sorta di divinizzazione del linguaggio che sui giornali si chiama politicamente corretto e di fatto è una forma di pensiero magico, emancipativo e proprio per questo peggiore di quello antico, che almeno non era neoprimitivo. E invece niente. Cappellani non si accontenta, o forse questo passa il convento ascetico. Il Carrubo è un libro asciutto. Niente superfetazioni. Dice le cose come stanno, e basta.
E che dice il Carrubo? Sulla scena tra albero, uomo, orto, baglio, parla delle cose che restano e delle cose che vanno. Una meditazione analitica ma svelta sulla mortalità. Sulla nobiltà (Cappellani, come Tomasi di Lampedusa è di origine nobile) che poi è declinazione di un da sempre e per sempre e che a volte, per un incendio o per altro, si interrompe. Ci sono lampi di teoria estetica, come una distinzione tra Barocco e Rococò. Il primo è forma d’accrescimento della natura, è se mai allegorico (ma bisogna avere la chiave) e alchemico (ma bisogna avere il momento), e trova emergenziale espressione nell’Edificio. Il rococò è già mondo, città, chiacchiera-curiosità-equivoco, tempo dei calendari e delle buste paga, e trova autocratica e pentecostale espressione nel Palazzo.
E c’è la distinzione fondamentale dove si fa l’elogio non del bosco (con sue eventuali lichtung postromantiche, esistenzialistiche, heideggeriane) ma del deserto. Ovvero il chiostro del fuoco. Il famoso fuoco che giudicherà tutte le cose. Che bruciava le capanne di Massimo di Lampsaco. A giustizia di tutto.