In un passato remoto, diciamo fino alla metà degli anni zero, ho accompagnato la mia attività di critico musicale e di scrittore con quella di reporter. Scrivevo, cioè, anche per riviste di viaggi, seppur sempre con uno sguardo poco canonico, più interessato a raccontare luoghi anche famosissimi per alcune loro caratteristiche non troppo note. Che so?, andavo a Mauritius, sull’Oceano indiano, e invece di raccontarne il mare e la barriera corallina che la circonda come l’anello di Saturno, sì, perché Mauritius, nonostante siamo soliti chiamarla al plurale, Le Mauritius, è in realtà un’isola singola, ecco, invece di raccontarne il mare mi concentravo sull’interno dell’isola, un po’ dando per scontato che chiunque vada a Mauritius o sappia bene che di isola circondata da mare e barriera corallina si tratta, un po’ perché di raccontare l’ovvio mi è sempre interessato poco, forse anche zero. Proprio in un viaggio a Mauritius, uno degli ultimi scritti per GenteViaggi, avevo come punto di appoggio un bellissimo resort sul mare. Uno di quelli con casette singole, lì li chiamano bungalow ma sembrano più villette in miniatura, tutto intorno pratini all’inglese tenuti alla perfezione, l’aria irrorata di Autan inodore, così da tenere distante le zanzare, portatrici di una malattia dal nome Chikungunya, nome che significa, vado a memoria, “uomo colto da atroci dolori”, i mauriziani sono davvero fenomenali nel dare i nomi a cose e luoghi, tutti molto macabri e apocalittici. Comunque, ero in questo resort, spettacolare, da solo. La mattina arrivavano a prendermi, la mia guida era all’apparenza indiano, anche se Mauritius è un’isola africana, posta geograficamente sotto l’Equatore, a est del Madagascar, le Seychelles molto più a nord-est. Fatti i miei giri all’interno, a visitare templi indù, sì, la mia guida sembrava indiana perché era di origine indiana, quasi tutta la popolazione locale è così, portata nell’isola come schiavi, a suo tempo, fatti i miei giri mi ritrovavo a passare la serata da solo in un resort chiaramente destinato a coppie, in viaggio di nozze o vacanze, io solo a cena, mentre tutto intorno a me era un continuo flirtare. Una volta rientrato in camera, poi, camere bellissime, trovavo sul letto, matrimoniale, composizioni molto belle fatte con gli asciugamani, bianchissimi, tutto intorno petali di rose a augurare una notte di passione, non ho ben compreso con chi. Gli asciugamani, di questo volevo appunto parlare, erano quasi sempre lì a imitare le fattezze di due cigni, i colli intrecciati o più spesso a comporre col loro caratteristico arco le due metà di un cuore. Ora, non dico che, per omaggiare la mia solitudine, avrei preferito una composizione che ricreasse un qualche animale solitario, che so?, il famoso passero che un mio noto conterraneo ha donato a futura memoria, o un aquila, ma questo mi sembrava ogni sera quasi una canzonatura, una sorta di sfottò perpetrato ai miei danni di reporter solitario. Toh, al limite, pensavo ogni sera, avrebbero potuto usare gli asciugamani piccoli, quelli da bidet, per fare un brutto anatroccolo, nella speranza che un giorno io potessi tornare qui con mia moglie, cosa che per altro è avvenuta proprio sul volgere degli anni zero, per festeggiare dieci anni di matrimonio.
Il cigno, è noto, è un animale spesso indicato come esempio più alto di bellezza e eleganza, e in effetti su questo, a differenza di quanto potrei dire degli usi non sensibilissimi di chi prepara le camere nei resort mauriziani, nulla da eccepire. Eleganza e bellezza che ha ispirato, non a caso, colui che viene indicato come il massimo compositore di balletti dell’Ottocento, Pëtr Il'ič Čajkovski, il compositore del Lago dei cigni. Il balletto che porta questo titolo, vuole la leggenda, sia stato ispirato proprio dal balletto che i cigni compiono quando è il loro momento della riproduzione, qualcosa di incredibile da ammirare, sul pelo dell’acqua dei laghi che i cigni abitano. Il cigno, del resto, è considerato a ragione un animale anomalo anche per il suo essere fedelmente monogamo, un solo compagno o una sola compagna per tutta la vita, fatto che lo rende una rarità nel mondo animale, dove il senso di riproduzione della specie ha praticamente sempre la meglio su qualsiasi tipo di comportamento riconducibile all’affetto o, addirittura, all’amore. Il fatto che nella storia in questione a cigno bianco, la principessa Odette nelle ore diurne, a causa di un sortilegio fattole da un mago cui aveva negato il proprio amore, venga contrapposto un cigno nero, suo alter ego, e che questo darà più avanti vita a uno dei film più disturbanti del nuovo millennio, film di quel genio malaticcio di Darren Aronofsky, uno che in quanto a creare disagi al suo pubblico è maestro, ben lo sa chi ha visto la sua ultima opera, Whale, e il fatto che forse il passaggio più noto del balletto di Čajkovskij si intitoli La morte del cigno, in realtà morte solamente momentanea, Sigfrid, innamorato di Odette, quando questa morirà in fondo al lago ghiacciato deciderà di farla finita gettandosi a sua volta nel lago con lei, il suo gesto d’amore estremo a riportarla in vita in sembianze umane, sortilegio bye bye, rende il tutto piuttosto ambiguo, anche il termine “il canto del cigno”, caratteristica tanto quanto la danza sensuale del momento dell’amore, è divenuto nell’immaginario comune qualcosa che si associa alla fine di una carriera, se non addirittura di una vita. Per la cronaca, Čajkovskij, uno dei massimi compositori classici del XIX secolo, morirà malissimo, si dice di colera, ma nei fatti si è a lungo vociferato che il colera se lo fosse andato a cercare come forma estrema di suicidio, lui nascostamente omosessuale in una società che non avrebbe mai accettato il suo orientamento sessuale, finte storie d’amore a costellarne l’esistenza depressa.
Insomma, il cigno è sì bellissimo e elegante, e fedelmente monogamo, ma è anche un animale che ha nel suo carniere tutta una serie di passaggi non esattamente felicissimi, almeno a livello iconografico, qualcuno vada a spiegarlo a chi si occupa di preparare le camere nei resort mauriziani, e magari lo spieghi anche a Levante, che ha scelto un cigno come animale simbolo del suo ritorno, verrebbe da dire, non suonasse a sua volta estremamente ambiguo, della sua rinascita, Opera futura. È con un cigno, infatti, che Levante posa nella copertina del suo nuovo lavoro, copertina ispirata da un verso di Emily Dickinson, “la speranza è quella cosa piumata”, e visto che di rinascita e speranza si parla, ecco il cigno, animale che comunque lì, su quello sfondo verde, in braccio a lei, biondissima in questa nuova fase della sua vita, ci sta proprio bene. Come sembra stare proprio bene, a livello compositivo, interpretativo e anche umano, lo dico perché l’ho incontrata a Sanremo, dove ha portato quello che considero il testo più bello tra i ventotto presentati in gara, Vivo, e l’ho trovata lucente, non saprei come altro definirla, lucente per questa aura di positività che emana, ma anche per una sorta di calore umano, avvolgente, tipo quello che assocerei ai primi raggi di sole che arrivano in primavera, vivo al nord, quando le giornate si allungano e dentro casa fa ancora più freddo che fuori, una sorta di inno al sorriso. Opera futura è un lavoro che deve esserle costato fatica, in fase di scrittura, perché la nascita di sua figlia Alma, di questo, anche di questo, parla Vivo, le ha portato tanta gioia ma anche un cambiamento, fisico e psicologico, di difficile gestione, ma l’ha anche liberata da una serie di orpelli, più leggera anche nel momento di cantare un dolore, più compiutamente rock nel momento di cantare col corpo e non solo col cuore o con la mente, una scrittura che si è affinata, col tempo, difficile superare sulla carta il precedente Magmamemoria, Mi manchi, Mater, Invincibile e Iride Blu e cuore liquido, insieme a Vivo, il punti più alti. Una scrittura che ha lavorato carverianamente sul togliere, come di chi sa cosa è necessario, essenziale, le venature blu della voce a reggere linee melodiche che accarezzano, a volte schiaffeggiano, sorrette da ritmi spigolosi, penso a Fa male qui, pop di qualità, d’autrice. Un corpo a corpo, elegante come avviene nei balletti, a tratti cigno bianco a tratti cigno nero, una inquietudine non troppo diversa da quella portata sul grande schermo da Natalie Portman sotto le cure di Aronofsky che però viene costantemente illuminata, con uno sguardo amorevole e consolatorio a coprire le asperità che potrebbero farci male o a mettere cerotti quando il danno è stato fatto. Vivo, poi, fa un discorso a parte, discorso che ho già affrontato altrove, raccontato nei giorni sanremesi. Un brano che affronta il postparto, Alma Futura a raccontare l’altro lato della Luna, quello in realtà ben visibile a tutti, illuminato bene, e nell’affrontarlo ci mette in evidenza aspetti che, qui da noi in Italia, nessuno ha raccontato prima di lei. Non solo la depressione che spesso assale la neo mamma, ma anche le difficoltà di centrarsi in questo nuovo ruolo, nuovo ruolo che spesso tende a eliminare tutte le altre sfumature, negando già in partenza il ruolo di donna, una madre è più di una donna nell’immaginario, il corpo che fatica a centrarsi di nuovo, l’erotismo, non solo quello legato al sesso, a sfuggire dai radar. Un brano importante, questo, di quelli che poi supereranno gli anni rimanendo nell’esile storia della musica italiana, ne sono convinto, perché di donne che cantano i corpi ce ne sono sempre state pochissime in Italia, e perché di donne che cantano il proprio sentirsi spaesate dentro il proprio corpo, anche in momenti che per tutti sono solo identificabile come di compiutezza e di felicità, è ancora più raro. Opera futura, nella sua essenzialità, poco più di mezzora di lavoro, suoni mai epici, anche quando il ritmo è più veloce, la voce al centro della scena, è un lavoro importante, nella carriera di Levante, nel quadro più ampio della canzone d’autrice, e più in generale nel nostro pop, un canto del cigno senza presagi negativi, Čajkovskij riposi in pace.