Cosa ci si può aspettare dall’incontro tra Abel Ferrara e Shia LaBeouf? Cosa succede quando prendi due elementi instabili? Viene fuori Padre Pio, ecco cosa viene fuori. Ora, io non credo che ad autori come Ferrara spettino recensioni regolari, accademiche, seriose. Credo mi manderebbe a fanculo. Un po’ quello che ho provato io guardando Padre Pio qui, alla Mostra del Cinema di Venezia. Non so da dove partire, forse sì, andate a vedere questo film ché come l’amore in Dio e gli importi (casuali) della NASpI è un immenso atto di fede. L’anno è il 1920, non è la Puglia di Scamarcio, sembra più la Sicilia di Ciprì e Maresco soprattutto nelle scene dove Pio, al secolo Francesco Frongione, viene corcato di botte dal diavolo (purtroppo quasi mai) o quando urla a una fantastica Asia Argento, incestuosa e uomo (accreditata come Tall Man) che Cristo deve essere il suo Signore e salvatore, e il tutto ha lo stesso tempo comico di Cicciolina all’Isola dei Famosi quando intimava i compagni di viaggio a ‘pentirsi’, di cosa poi non ci è dato sapere. Il bello di Padre Pio è che Padre Pio in questo film non è pervenuto, come cercare le note nella composizione 4’33’’ di John Cage, ma senza il suo genio o il suo livello di provocazione.
Però, in compenso, Ferrara come un Alessandro Barbera prestato al cinema, racconta una amara pagina della storia nostrana che è quella dell’eccidio di San Giovanni Rotondo. Potrebbe risultare un lavoro quasi documentaristico, di divulgazione storica, non fosse che gli attori italiani che recitano un po’ in inglese e un po’ in italiano (à la Jar Jar Binks) lasciano il sapore amatoriale di una web serie degli anni ’10 su Youtube, che ricordo solo io insieme a Gemma Del Sud. Checché ne dichiari Abel Ferrara su Repubblica (in una intervista uscita poco tempo fa) quell’eccidio non è la nascita del fascismo, come quei campi nazisti supervisionati dagli Alleati alla fine degli anni ’30 non erano l’inizio del nazismo (ne sanno qualcosa in Africa alla fine del XIX secolo). Potrebbe essere benissimo un film sulla fine del socialismo per dirla con Emanuele Di Nicola, uno di quei film che professori -ex reduci dei centri sociali- mostrano agli alunni per politicizzarli un pochino prima di iscriversi al Liceo classico, pippare cocaina ed emulare Izzo, Guido e Ghira nelle notti brave borghesi.
Se l’intento di Abel era deresponsabilizzare Padre Pio dall’eccidio, accuse portate avanti dall’Avanti, l’intenzionalità svanisce in un diorama puerile la cui unica riflessione che può portare, al massimo, è la completa impossibilità per una certa sinistra di vincere realmente in Italia. Gli attimi migliori, e ce ne sono in quella estetica del brutto che alla sottoscritta è tanto cara, sono quelli dove, nell’aria insalubre del monastero dai colori refniani, aleggia il dubbio - almeno in chi guarda - che Padre Pio potesse essere tre persone: un disturbato psicotico che vedeva e sentiva cose, un proto emo, un ragazzo interrotto, un paziente rubato al Nido del Cuculo; un truffatore fatto e finito che, in quanto a far leva sul timore di Dio per gonfiare un ego ipertrofico, non aveva nulla da invidiare al ‘circo’ chiamato San Pietro; un martire, un rabdomante dell’orrore umano e di ogni male che ci avrebbe portato tutti nel secolo più breve e brutale della Storia.
Padre Pio, mi spiace Abel Ferrara, rimane come una preghiera ancorata a terra, non raggiunge mai il cielo perché troppo legato alla confusione umana, a una narrazione grossolana, dicotomico suo malgrado, con un commovente Shia che presto o tardi, grazie (?) ai torrent che usciranno in 4K, diventerà un grandioso meme o, ancora meglio, l’immagine usate dai 50enni buongiornisti nelle catene di Sant’Antonio su Whatsapp o Facebook, soprattutto con tutto il carico emotivo e spirituale sulla sua spalla destra della mano bucata di Gesù. Abel Ferrara allontana da noi questo amaro calice, perché come nel Getsemani, anche i giardini della Biennale sono stati abbandonati da ogni grazia divina.