Domenica pomeriggio di fronte al Piccolo Teatro di Milano si raduna una folla pacifica, ma arrabbiata. “Com’è la situazione? Mi ha appena chiamato il sindaco…”. Vedo Paolo Rossi indaffarato a organizzare, a gestire, a preparare, a pochi minuti dall’inizio del suo ultimo spettacolo, prima di una lunga pausa imposta dal governo.
Entriamo nel teatro Strehler a piccoli passi, per permettere al personale di misurarci uno ad uno la temperatura rispettando il distanziamento sociale. I passi lenti scandiscono una marcia che ci fa sembrare un plotone di soldati spediti al fronte e, considerando le nuove disposizioni che riguardano il mondo dello spettacolo, forse un po’ “soldatini” lo siamo davvero. Eppure, solito si puniscono i colpevoli, solo che mentre mi guardo attorno di colpevoli non ne vedo. Però noi, con quell’atto di volontaria immolazione, ci stiamo consegnando nelle mani dei presunti “malfattori” (rubando le parole del cantautore), cioè di chi è considerato dal comitato tecnico scientifico - ascoltato dal Governo - una parte del problema e quindi da chiudere il prima possibile in vista di tempi migliori.
Nell’incertezza generale, lo spettacolo inizia. E si ride, si ride tanto. Per un’ora si dimenticano le nuove restrizioni, si dimenticano i problemi e i numeri dei contagi che salgono cogliendoci tutti inspiegabilmente di sorpresa. Ma poi arriva anche il momento serio e, pur senza rinunciare all’ironia, Paolo Rossi attacca il nuovo Dpcm in un modo che fa riflettere. “Forse il vero distanziamento che si vuole creare è quello fra la gente e la cultura”. Guardandosi intorno, in un teatro semivuoto, nel rispetto di un distanziamento di ben due posti fra gli spettatori, che indossano rigorosamente la mascherina, non si può fare a meno di dargli ragione. Perché i teatri?
La risposta probabilmente è quella dell’attore stesso. Le persone che fanno queste leggi “in un teatro non ci ha mai messo piede”. Mi sentirei di aggiungere che forse queste stesse persone non hanno mai messo piede in un autobus tra le 7 e le 9 del mattino, o in alcuni luoghi di lavoro, dove spesso il distanziamento non è possibile, e verrebbe voglia di dare un’occhiata ai dati per vedere quanta gente effettivamente è stata contagiata nei teatri e in altri luoghi di cultura.
“Anche se nei tempi di distanziamento sociale è più difficile, noi vogliamo fare uno spettacolo con e non solo per il pubblico”. E lo è stato, fin dall’inizio, quando ci siamo ritrovati in piedi a ballare goffamente continuando a ridere. Ma il vero coinvolgimento ci è chiaro verso la fine, quando, quasi commossi, ci incamminiamo verso l’uscita battendo le mani al ritmo di una canzone che parla di libertà. Ad attenderci fuori c’è un gruppo di manifestanti, che ci accoglie come se fossimo un corteo di eroi. E così, ci trasformiamo in un esercito di disertori ed essere spettatori diventa un vero e proprio atto di protesta.
“Noi non ci fermeremo, perché il teatro non è solo su un palco, ma nelle piazze, nei cortili e nelle strade, pur sempre mantenendo le norme sanitarie”. Paolo Rossi esce e la protesta, o lo spettacolo, vanno avanti per ore. È stata commessa un’ingiustizia e il colpevole sarà punito a suon di balli e canti.
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