Ma cos’è questa unione di tristi boy-scout perbenisti di destra e di sinistra che chiedono le dimissioni di Vittorio Sgarbi perché ha profanato il MAXXI con un suo show? Da quali tombe sono usciti questi zombi del moralismo culturale? C’è chi parla di profanazione di una chiesa dell’arte contemporanea, ma davvero? Forse sì, perché sono tutti preti, o le casalinghe di Voghera di cui parlava uno dei nostri più grandi scrittori, Alberto Arbasino. Vogliono che l’arte, o chi la rappresenta e la divulga come Sgarbi, sia qualcosa di pacificatorio. A differenza mia, che detesto anche le chiese, Sgarbi le frequenta e ne studia i dipinti, come massimo conoscitore di affreschi e quadri e dipinti sacri (anche qui, per me niente è sacro, ma per chi ci crede questo sono), e nelle chiese si comporta con deferenza anche rispetto al luogo. Ma trasformare un museo di arte contemporanea in una chiesa, come pensano le 43 prefiche femministe e il presidente e perfino la critica Beatrice Luca, significa ignorare tutta l’arte contemporanea, da Manet a Duchamp a Cattelan. Eh ma quella è arte, ti dicono. Come se l’arte non esondasse nella vita, come se puntasse a cambiare il modo di pensare, come se fosse una provocazione fine a se stessa. Che è una concezione molto borghese dell’arte.
È lo stessa ragione per cui gli impressionisti esposero al Salon des Refusés, ma almeno si scandalizzavano respingendoli. È la stessa ragione per cui i nazisti bruciarono capolavori espressionisti e cubisti e astrattisti definendola “arte degenerata”. Così come nell’Unione Sovietica comunista sparirono le avanguardie suprematiste e in Italia il fascismo mise in riga i futuristi, la prima vera avanguardia europea. Sgarbi sa adeguarsi al contesto: parla il linguaggio di Vasari di fronte a un Tiziano, e il linguaggio moderno di fronte a un Duchamp. Parla un linguaggio in una chiesa di fronte a una pala d’altare, e un altro in un museo dove per esempio è esposta una foto di un crocifisso immerso nell’orina, di Andres Serrano, o le foto altrettanto capolavori di cazzi negri di Robert Mapplethorpe. Davanti alla borsa di Milano c’è la scultura di un dito medio di Cattelan. Suscitò scalpore, perché è questo che deve fare l’arte. Ma anche chi ne parla, altrimenti aveva ragione Oscar Wilde: «Ci sono due modi di odiare l’arte, uno è odiarla, l’altro è odiarla a comode razioni». Cosa che fanno tutti, tranne Sgarbi, che si muove nel tempo con le parole del tempo. Se invece di Sgarbi ci fosse stato Joseph Beuys, avrebbe spiegato che la sua arte era contro l’arte, e era arte. Se ci fosse stato Pier Paolo Pasolini avrebbe detto quello che disse: «Penso dei comunisti da salotto ciò che penso del salotto. Merda».
Comunisti da salotto o fascisti da salotto o moralisti da salotto. L’arte è quella roba lì, innocua. Per Sgarbi no. Perché vive l’arte parlando la lingua dell’arte. Tant’è che, da frequentatore di chiese, fu l’unico a difendermi quando, durante un terremoto che rase al suolo una chiesa, dichiarai «il crollo di una chiesa però è divertente». Mentre tutti gridavano allo scandalo ne capii subito il senso: se credi in un essere immaginario onnipotente, onnisciente, onnipresente, quella chiesa non l’ha buttata giù un terremoto, un movimento delle faglie o della tettonica a placche che sposta i continenti di questo pianeta da quattro miliardi di anni, ma proprio l’essere in cui credi. Sgarbi è questo, capace di comprendere ogni estremo, e l’arte è sempre estrema. Tranne per chi sta lì a vederla senza capirla. Come se non contasse niente. Come se non contasse un cazzo. Come il cazzo di cui parla Sgarbi. I cazzi di Mapplethorpe. I cazzi di Pasolini. Resi impotenti dai perbenisti, dai preti, dai morti viventi politicamente corretti di sinistra e tradizionalmente corretti di destra, due facce della stessa medaglietta moralistica. Caro Vittorio, continua a parlare il linguaggio dell’arte e della letteratura, sei l’eroe dei due mondi. Le casalinghe di Voghera di Arbasino si dedichino all’uncinetto, se riescono almeno in quello. MAXXI coglioni.